Trent’anni

Comincio con un ricordo, che rivivo come la scena di un film. Giovanni e Francesca Falcone sono seduti con altri amici intorno al tavolo da pranzo di casa nostra. Si fanno discorsi più o meno seri con l’intermezzo degli immancabili giochi di parole… Risalgo alla data: era giovedì 14 maggio 1992 ed era l’ultima volta in cui ci saremmo visti, ma nessuno poteva immaginarlo e la serata passò in allegria, come altre prima, sostenuta dallo scoppiettare delle sue battute ironiche. La stessa ironia con cui mi aveva ripetuto più volte che a Roma poteva muoversi con relativa libertà, ma in Sicilia era soltanto “un morto che cammina”. E la profezia si avverò nel modo che tutti ricordiamo, quel sabato 23 maggio 1992. Per giorni e settimane, la strage riempì pagine di giornali e palinsesti di radio e televisioni, praticamente in tutto il mondo. Ma in Italia la risposta della cosiddetta gente fu diversa. C’era un silenzio che restituiva il senso di un dolore vero, sentito; di una lacerazione che ora univa un intero Paese contro quella barbarie. A colpirmi, in particolare, era stata la reazione tanto composta quanto corale dei palermitani. In pochi giorni, finestre e balconi si erano riempiti di lenzuola bianche: un’espressione inedita e un messaggio forte, muto come il lutto. Quando CGIL, CISL e UIL proclamarono la prima manifestazione nazionale a Palermo, mi fu chiesto di pensare a un manifesto, un messaggio in grado di dare voce allo sdegno di un intero popolo. Davanti al foglio bianco, la reazione istintiva fu l’associazione con quelle lenzuola, ma doveva esserci anche un’icona, un simbolo capace di arrivare al cuore di chi guarda. Lacerai il foglio proprio al centro con due strappi che correvano paralleli e feci passare all’interno delle rose rosse spezzate. L’effetto mi colpì e mi commosse. Anche uno sguardo distratto poteva “leggere” i messaggi impliciti: i fiori deposti sulla tomba, il senso delle rose e delle vite recise e, ancora, la singolare ricomposizione della bandiera italiana. Legai la composizione a un titolo che a sua volta poteva essere letto almeno in due accezioni diverse: “L’ITALIA PARTE CIVILE”. Nel 2000, l’Associazione Nazionale Magistrati adottò quell’immagine come icona simbolo per ricordare tutti i giudici uccisi dalla mafia e dal terrorismo. Quando però mi capita di rivedere “le rose spezzate”, il ricordo torna a quei momenti dolorosi. Dolore che, dal 25 febbraio scorso, si è acuito perché è uscita di scena un’altra figura straordinaria, legata a quella stagione, Liliana Ferraro, collega e collaboratrice di Giovanni Falcone. Così, per riequilibrare lo stato d’animo, corro con la memoria a ritrovare una bella serata della primavera di trent’anni fa, in cui eravamo tutti insieme. Giovedì 14 maggio 1992. Antonio Romano Presidente e fondatore di Inarea

Era di maggio

Quanto risuona d’Europa questa settimana? La bandiera a 12 stelle si prende tutto il suo posto in un blu dipinto di blu. La citazione di Modugno non è un caso: nel comporre il suo inno fu un’immagine a guidarlo ed era un azzurro di Chagall (pittore russo, ma lo scriviamo tra parentesi). E dunque, questi sono i giorni in cui Torino si appunta sul petto la spilla dell’Eurovision, nato nel 1956 su ispirazione del nostro Sanremo. Eppure, scorrendo i vincitori da quell’anno ad oggi, troviamo una nutritissima lista di campioni rimasti, ahinoi, solo locali (Abba a parte, che ebbero una speciale licenza per cantare in inglese e non in svedese). Dunque, per ricavare da questa settimana qualcosa che superi la prova del tempo, dovremmo forse rivolgerci ai suoi potenziali di base: suono e visione. Il primo è una musica senza parole. Sarà un caso, ma il concerto di lunedì 9 maggio al Campidoglio (anniversario della Festa dell’Europa, dedicata a David Sassoli), ha aperto con l’”Estate” di Vivaldi: una melodia che non bussa, entra sicura, diremmo in gergo di primavera. La seconda è far parlare, senza nessuno scioglilingua, solo l’immagine. E infatti questo sabato sarà la Notte Europea dei musei, con ingresso serale e ad un costo simbolico in molti istituti culturali del continente. Del resto, il discorso di Robert Schuman del 9 maggio 1950 (da cui partì la nostra Europa), ha superato la prova del tempo. Allora come oggi, i problemi erano acciaio, energia e guerre; come preservare la pace mondiale? “Con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Mettiamo così al centro una composizione che evoca solo suono e visione; è il nostro piccolo contributo creativo. Fiorirà l’immaginazione?

Se la Mole si rifà il trucc

E se in barba a ogni stereotipo vi dicessimo che il kolossal è nato a Torino? Peccato che poi questa parola sia rimasta sabauda il tempo di un velo di fard. Siamo nel 1914, il film si chiama Cabiria, la casa di produzione Itala e il regista Giovanni Pastrone, anche se passerà alla storia come il ghostwriter di Gabriele D’Annunzio: per solidificare oltralpe la settima arte, serviva infatti il vate. Da Broadway alla Casa Bianca, Cabiria farà il giro d’America: tutti apprezzarono quella sapienza italiana, un po’ artigianale e un po’ tuttofare, di saper fondere contenuto, musica e animazione, per un’opera che era “colossale” già nella lunghezza (una pellicola di oltre 3 mila metri contro una media mondiale di soli 200). Se l’alba del cinema è stata sotto la Mole, ci sembra così molto naturale il fatto che il Museo Nazionale del Cinema di Torino questa settimana abbia siglato un accordo con l’Academy di Hollywood: sul tavolo un restyling dell’edificio, un gemellaggio tra direttori e mostre e il primo coordinamento tra i musei di cinema del mondo (tra cui la Cinémathèque française, l’Australian Centre for the Moving Image, il London Film Museum, l’Eye Film Institute di Amsterdam). Se la Mole si rifà il trucco, la città non sta di certo a guardare: il maggio torinese è già stretto tra l’Eurovision e il Salone del Libro. L’impressione è proprio che l’elegante signora bohémien non avrà neanche un minuto libero per incipriarsi il naso.

Per il Primo Maggio, l’ape calza alla perfezione

“Bee’s knees” è un modo di dire inglese che sta per “high standard”, espressione avvinta da zelo professionale. Così può essere la performance, l’aspettativa, ma anche i desiderata delle cosiddette soft skills: “il candidato deve avere propensione al lavoro di gruppo, spiccato problem solving e attitudine al team building”. È il refrain più noto di LinkedIn. L’ape, da cui derivano queste espressioni, è da sempre associata al lavoro, quello corale, onesto e organizzato. Non a caso, è stata adottata come marchio di associazioni operaie e di banche popolari. Con lo stesso spirito, è entrata in ben 74 stemmi di comuni italiani e in un numero imprecisato di quelli di città e paesi, in tutta Europa. Ma è anche simbolo di immortalità e di resurrezione e con questi significati fu scelta, dai Merovingi prima e da Napoleone più tardi, quale riferimento araldico. È insomma un insetto così fiero del suo standing da evocare una certa propensione ai fasti. I Barberini, ad esempio, quando nel 1623 si ritrovarono un papa in casa (Maffeo alias Urbano VIII), si affrettarono a cambiare il logo di famiglia. Così, la loro araldica su frontoni e fontane si presentò con tre api; ma in origine erano tafàni. Da commercianti a papi, il cambio di standing richiedeva anche quello di crisalide e questa storia ci insegna che, nel ridisegnare la propria identità, ognuno può scegliere l’animale-totem che vuole… Per questo weekend, tuttavia, srotoliamo lacci e calzini della nostra ape e la portiamo nelle Marche dove, affacciata sulla costa di San Benedetto del Tronto, campeggia dal 1997 una scultura, con una frase: “Lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare” (del torinese Ugo Nespolo). Non è decisamente un messaggio motivazionale da lunedì mattina, ma un invito a bandire dal lavoro invidia e avidità: praticamente ciò che non avverrà mai dentro un alveare. Decisamente high standard la nostra ape ed è così che ci vogliamo rappresentare. Buon Primo Maggio, e buon lavoro. Perenni originali Ci piace così tanto l’ape da averla assunta come simbolo di Inarea perché sa lavorare alla creazione di originali. Nel dubbio su come rappresentarla, tuttavia, abbiamo dato sfogo alla creatività dei nostri designer e il risultato è stato un piccolo alveare. MadeInarea Nel 1983, quando disegnammo il simbolo della CGIL, l’idea di smart working, magari proprio riva al mare, non era praticamente immaginabile. Il marchio, esteso al sistema di identità, fu adottato ufficialmente dalla Confederazione nel 1986. E ci piace constatare che, a distanza di quasi quarant’anni, l’immaginazione di allora abbia conservato una giusta contemporaneità. Anche per questa Festa del Lavoro!

La Via Lattea dell’arte

Domani apriranno i battenti della 59ª Biennale d’Arte e guardando dallo spioncino questi giorni di preview, abbiamo la sensazione che sarà un’edizione dalle mille e una notte; sarà popolata infatti da storie raccontate perlopiù da artiste donne (191) provenienti prevalentemente da luoghi come Dakar, il Venezuela o l’Iran. Tutto prende spunto da Il latte dei sogni, un libro di racconti per bambini dell’artista Leonora Carrington (1917-2011). Nata in Inghilterra, amica dei surrealisti a Parigi (e surrealista lei stessa), sceglierà però di vivere in Messico, luogo dal mito verde e puro, dove diventerà un’eroina nazionale. La biografia di Leonora, tutta sud e magia, lancia il gomitolo della mostra che rotolerà tra i Giardini e l’Arsenale: 1433 opere, per 213 artisti da 58 Paesi. Abbiamo così preparato il nostro telescopio tutto al femminile che ci fa guardare lontano, per una Biennale a testa insù (nei sogni certo, ma anche per distogliere un po’ l’occhio da questo presente). Del resto, come ci ricorda il titolo del Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti, se forse stiamo vivendo una “storia della notte” è indubbio che seguirà un “destino delle comete”. E noi, in questa nuova Via Lattea, cominciamo ad aguzzare la vista.

A chi calza la Pasqua

PERCHÉ LE AZIENDE HANNO BISOGNO DI LEADER GENTILI Se un noto motto si chiede se sia nato prima l’uovo o la gallina, la stessa cosa potrebbe valere per chi ha la patria potestà sul tema Pasqua: coniglio o lepre? Certi che la risposta ricadrebbe sul primo, dobbiamo invece dire che inizialmente era un affare da lepre, dea dei boschi, fertile e veloce, e non solo al galoppo: era infatti la prima, tra gli animali della foresta, a svegliarsi dal letargo per far capolino tra le primule di marzo. Tutte queste coincidenze – di tempo e di specie – ne facevano l’animale che per eccellenza aveva voce in capitolo per parlare di Pasqua. Ad un certo punto, però, è avvenuto lo switch, per cui il coniglio diventa l’animale che porta in dono le uova ai bambini per Pasqua (una tradizione attestata in Germania tra Medio Evo e Rinascimento). È questo un animale del tutto diverso e decisamente pantofolaio: se la lepre corre, lui si rintana. Ma la comfort zone non è detto che sia sempre qualcosa da cui venir fuori. Ad esempio, il nostro esemplare alla buon’ora è pronto a srotolarsi per fare il pieno d’uova: chiamiamola pure calza pasquale. Buona Pasqua da tutto il team di Inarea Identità stagionali Joseph Jastrow, psicologo della fine dell’800, sottopose quest’immagine a un gruppo di bambini: la domenica di Pasqua vi riconoscevano un coniglio, mentre a ottobre un’anatra… l’immagine del “coniglio-anatra” è l’“illusione interpretativa” per eccellenza. MadeInarea Coniglio o lepre? Italo non aveva dubbi su chi dovesse incarnare un’idea di velocità e di leggerezza al tempo stesso. Noi le abbiamo forma e trasformata in un brand conosciuto e amato (anno 2011).

Amori e altri Grand Tour

Una fuga romantica dalla Brexit. Un articolo apparso sul Times la scorsa settimana parla di un accordo tra Italia e Regno Unito per un visto speciale: i cittadini inglesi freelance potranno lavorare un anno nello Stivale. Ma non sono solo i veti doganali ad accomunare questo Grand Tour del terzo millennio a quello del Settecento, c’è anche un certo driver sentimentale: una fuga dal cloudy grey alla volta del sole, col favore tutto contemporaneo del cloud. Il quotidiano britannico promette uno «slice of la dolce vita»: ecco, non si esce proprio da un certo brand italiano. Fortuna che ci pensa la storia a spargere i pollini. Nell’800, Mary Shelley ci ha lasciato un taccuino del suo viaggio in Italia che sta proprio stretto nel formato cartolina: parla di Carboneria (non carbonara), dei moti e della cultura italiana che fiorì – clandestina – sotto l’aquila dello stemma d’Austria. Per cui, cari nomadi inglesi, vi aspettiamo per raccontarci qualcosa di noi che ancora non sappiamo. Ovviamente, il giro in Vespa e una sosta sotto un campanile per un «m’ama non m’ama» lo offriremo noi: non tutto ciò che è “branded” è appassito.

PPP

Se è vero che la parte precede il tutto, tre consonanti uguali, in Italia, nell’anno 2022 (che si qualifica con ben tre due), sembrano richiamare solo Pier Paolo Pasolini, di cui ricorrono i cento anni dalla nascita. Ma, di fronte a una combinazione di lettere come PPP, l’istinto alla disobbedienza fa deragliare la nostra immaginazione… Per cui, la prima parola fuori dal binario è Pompeii, scoperta proprio il 1 aprile 1748 sotto Carlo di Borbone: spagnolissimo sì, ma per metà DNA italiano. Sua madre era Elisabetta Farnese, che gli lasciò in eredità Tiziano, Raffaello e molti altri zecchini d’oro del Rinascimento. Carlo lì trasferì da Parma, il ducato della mamma, verso Capodimonte: in fondo, erano tutti affetti suoi e il re poteva farne quel che voleva. Oggi, 80 tra questi capolavori tornano per un breve soggiorno a “casa”, in occasione di una mostra al Complesso della Pilotta dedicata ai Farnese. La nostra seconda “P” è così una linea tracciata tra le due città. La terza, si mette a metà tra le prime due come un nastro biadesivo. Sembra che un giorno, in procinto di tornare in Spagna, Carlo trovò a Pompei un anello antico, che lasciò simbolicamente in consegna agli scavi. Così facendo, e un po’ involontariamente, il re pose le basi per quella che oggi chiamiamo tutela: un altro modo di intendere gli “affetti” suoi. Pompei, Parma e Patrimonio, una bella storia che (non sappiamo quanto) l’altro PPP sarebbe stato felice di ascoltare. Tutto vero, in ogni caso, l’unica palla è il nostro pesce, che si sta srotolando per augurarvi buon primo aprile!

Che genere di papà sei?

Quali sono i più candidi esempi che ci offre la lingua sulla relazione tra forma e funzione? Le parole che indicano i genitori: perché papà (così come mamma), nascono da una piccola esplosione di gioia, formato palato e sillaba. E dunque, il papà, che genere ha? C’è una desinenza in vocale aperta, ma dalla Toscana bussano a ricordarci l’esistenza di “babbo”, un geosinonimo – per dirlo in gergo tecnico – di tutt’altra foggia (senza riferimenti all’omonima città). A noi piace pensare che ogni genitore può essere sui generis, mescolando forma e funzione come meglio vuole. Magari sarà un (o un’) elettricista che fa la maglia: sarebbe un perfetto collaudatore di emozioni… Scherziamo un po’ tra immagini e parole, per ricordarci che queste decollano proprio in questo modo: in principio era un gioco linguistico, diceva Wittgenstein, un signore che, su questi temi, ci si è arrovellato parecchio. Questa leggerezza, però, non la ritroviamo nel dibattito su come si sta evolvendo il linguaggio. Indipendentemente da come vogliamo schierarci, teniamo solo a mente che lei, la lingua, non ne è minimamente scossa. Potremmo immaginarla come una divinità, sovrana e pigra sul sofà; nel passato ha accettato prestiti, troncamenti, anglicismi ed elisioni, a patto che non intaccassero minimamente la sua comfort zone. Per dirla con un’immagine, la lingua consegna al futuro solo quello che entra nelle maglie strette del suo modus “vivendi”. Dunque, buona festa del papà domani (all’insegna della spontaneità!).

Che weekend sarai?

Il Carnevale di Venezia non si è concluso poi da molto e se Alessandro Mendini avesse potuto realizzare il progetto del Ponte dell’Accademia (Biennale 1980), sarebbe stato uno sbuffo rococò sull’acqua, praticamente una maschera felliniana. Il designer ci ricorda uno scenografo che ammanta le cose, seguendo il filo nascosto di una citazione sparsa, leggiadra, un tantino beffarda. La ritroviamo nella poltrona Proust (1978), che ci invita a sederci come il Re Sole, sui puntini di Paul Signac. Scendiamo invece nei sotterranei della fucina di Vulcano dove, più o meno negli stessi anni, un altro designer era convinto che il lavoro (inteso come una fricassea di materiali, consistenze e rumori), potesse entrare in blocco in un disegno nuovo; letteralmente, come fa la lumaca nella chiocciola. Ed ecco Marco Zanuso con la sua Lady, la poltrona imbottita con il poliuretano di quelle automobili che, nel ‘51, magari gli italiani speravano già di poter comprare. Due modi diversi di abitare la vita e la casa. Per Mendini, stiletto e merletto, è quel luogo che permette di esser “pigri solo il sabato mattina”: lo scrive nelle canzoni di Architettura Sussurrante, il disco prodotto insieme ai Matia Bazar nel 1983 e di cui il MoMA, sembra, ne conservi una copia… Zanuso non riesce invece proprio a pensare a una domus pigra di zelo e nel 1956 arriva il Compasso d’Oro per la Macchina da Cucire Borletti. I due, il sarto e il costumista, di questi premi ne vinceranno in tutto dieci. Domani, sabato mattina, potremmo allora scegliere se sarà un weekend post-moderno o ancora modernista. Ma l’occasione per far quadrare il cerchio ci è data da una mostra aperta proprio in questi giorni all’ADI Design Museum. Ovviamente, sotto la protezione della beata pigrizia.