Cadono frutti in testa?

Il 2022 corre sui cavi dell’alta tensione. Ma qualcuno, prima di noi, non aveva avuto dubbi sul fatto che sarebbe stato un anno un po’ distopico: è il caso di Fahrenheit 451, il romanzo scritto nel 1953 e ambientato in un punto non ben specificato dopo il 2022. Lì, la città era luminosa ma triste, perché l’ordine era di bruciare tutti i libri. Oggi, la Tour Eiffel e la Mole Antonelliana condividono il risparmio sulle luminarie. Effettivamente, la fantascienza non era arrivata a tanto… A pensarci bene, tutto quello che ha fatto la cultura della nostra modernità è basato sul brulichio luccicante di una città che sale; ininterrotto più o meno dal 1900 ad oggi. Ora, sembra che si deve un po’ rallentare e il design si sta organizzando per bene. Succede alla Nike, ad esempio, che vede il futuro dell’abbigliamento sportivo al minimo di zip e cuciture: semplificando le linee, il ciclo produttivo e il consumo di energia ringraziano. Forse, questo presente a voltaggio un po’ più basso non è poi così male: cadono mele (pardon, pere) in testa, si accendono nuove lampadine…

Tre civette sul comò

“Civettuola” è un’espressione dove un non-so-che di lezioso svolazza e spesso atterra nel mondo della moda. Vero solo a metà. A Parigi, settembre si è chiuso con la fashion week. Entriamo in una sfilata e il set è una grotta all’italiana, quasi una maquette del giardino di Boboli: in passerella abiti molto neri, di molti pizzi. È la sfilata di Dior e Maria Grazia Chiuri prende ispirazione da Caterina de’ Medici, la fiorentina che nel Rinascimento fece scalpore e cronaca: portò in Francia forchette, zeppe e merletti di Burano, oltre a un certo savoir faire nero. Indossava abiti più scuri del fumo e, per svettare in tutti i sensi, amava i tacchi. Si dice che fu la mandante della Strage degli Ugonotti, così come dell’avvelenamento della suocera, tradita – sembra – da un guanto profumato al veleno… anch’esso di finissima esportazione fiorentina. Negli stessi anni, in Toscana, la moglie di Cosimo de’ Medici, Eleonora di Toledo, fondava una manifattura tessile, scegliendo il Bronzino come pubblicitario: la raffigurò con un abito che era il non plus ultra del broccato. Quel vestito forse non è mai esistito, ma un campione di stoffa (solo questo aveva il pittore), bastò per far parlare l’Europa dello “stile Eleonora”. Tra arsenico e vecchi e nuovi merletti, queste donne ci appaiono come civette, però senza quei fronzoli dei diminutivi perché il metro è completamente diverso: l’uccello notturno è da sempre simbolo di coloro che sanno guardare oltre. E, senza ombra di dubbio, possiamo dire che dal Cinquecento sia iniziato quel lungo-metraggio del fashion style italiano.

Fish-ness

Questa settimana è stato trovato il cuore più antico del mondo. E se “antico” chiama spesso anche il “sacro”, ci spiace constatare che il primato non è dell’uomo. Siamo al largo dell’Australia e il protagonista è un pesce – chiamato Gogo – estintosi 380 milioni di anni fa: di lui non rimane che un fossile, però il cuore è rimasto intatto. Tutto torna. Per i nostri antenati, infatti, la sacralità era in fondo al mare. Lì trovavano del meraviglioso, a tal punto che quel “sottosopra” non perdeva mai occasione di affiorare, magari travestito da arte: poeti, artisti e scultori ne avevano piene le tasche di meduse, sirene o tritoni. Per non parlare del fascino elettrico esercitato dalle murene: i romani le allevavano nelle “piscine”, una sorta di touch-point con un mondo altro. E “pesce” sarà infine l’acronimo di Gesù… Insomma, la sacralità non è solo della terraferma. Ma per nuotare in questi tempi che sembrano rivoltarci come un calzino, potremmo almeno guardarli un po’ più da vicino: i pesci, infatti, non chiudono mai gli occhi. Noi umani, invece, vogliamo che la fortuna sia cieca, la giustizia bendata e la felicità la godiamo a occhi chiusi! Forse aveva ragione la mamma quando ci raccomandava di tenere ben aperti gli occhi? L’allerta ci farà rimanere a galla.

Dillo con un fiore

Se la lingua batte dove il dente duole, l’italiano segna un punto nel mondo parlante che gli chiede di cambiare. E lo fa da lingua antica che, in quanto tale, ha bisogno solo di guardarsi un po’ più dentro per trovare le parole. Nel nuovo Dizionario della lingua italiana di Treccani “persona” ed “essere umano” sostituiranno quella “sineddoche” di uomo: cioè il fatto che questa parola sia sempre stata un po’ la parte per il tutto. Valeria Della Valle e Giuseppe Patota sono i due linguisti che hanno lavorato al progetto, in commercio da ottobre. La seconda novità sostanziale è che, per la prima volta, aggettivi e nomi saranno scritti in ordine alfabetico; si avranno così “amica, amico”, ma anche “direttore, direttrice”, “medica, medico”. Come tutte le parole, anche queste hanno una parte fissa e una che cambia con l’uso; è il primo principio della linguistica e non esiste l’una senza l’altra. Il nuovo dizionario semplicemente accoglie le istanze di entrambe. Per capirlo meglio, ci affidiamo come nostro consueto a un’immagine. Se provassimo a srotolare questo nodo, cosa rimane? Non sarà più una calla ma certo non è ancora una cravatta (che è tale solo se la usiamo in un certo modo). E noi abbiamo cercato di dirlo appunto con un fiore. La lingua veste il pensiero e, nel continuo cambiamento, modifica il paesaggio delle relazioni umane con fioriture sempre nuove e sorprendenti.

Di Colossi e cugini prossimi

Mercoledì scorso, il sindaco Roberto Gualtieri è volato a Parigi per presentare la candidatura di Roma all’Expo 2030. Poiché amiamo le sfide, abbiamo provato a dire la nostra sul tema, scaldando un po’ i media con la proposta, firmata da Luca Josi e Antonio Romano, di un colosso prossimo al Colosseo. L’Anfiteatro Flavio è il monumento più iconico d’Italia, eppure sembra aver smarrito il senso del suo etimo: deve il nome alla statua di Nerone, talmente magistrale nelle dimensioni da rimaner impressa nella memoria oltre la sua dipartita. Se pensiamo a simboli celeberrimi, pensati per eventi come questo, il paragone più naturale è con l’icona francese, nata dalla mente di Gustave Eiffel, proprio per l’Esposizione Universale del 1889. Con il nostro Anfiteatro, hanno in comune una stessa tempra simbolica, eppure la fama di opera di ingegneria moderna se l’è conquistata con fatica. Eugène Atget, tra i migliori fotografi del tempo, la schivava. Al 1893 data una caricatura che proponeva di usarla come “piedistallo” per la statua di Victor Hugo; ah, les miserables, avrebbe forse detto. Quella porta di accesso a tutte le merci del mondo – cioè l’Expo – era forse vista, da occhi ancora acerbi, come un groviglio di ferro. E in quanto tale fece il suo lavoro, diventando calamita cosmica di attenzione. E noi, mentre tocchiamo appunto ferro per la nostra Capitale (il responso arriverà a novembre), ci stiamo convincendo che, se c’è un’idea adatta al contesto, può diventare a volte un successo colossale.

Buon viaggio

Ci auguriamo sempre buon viaggio alla vigilia della pausa estiva, eppure è settembre che porta con sé la bisaccia di impegni, momenti e svaghi – perché no – che ci attenderanno nel nuovo anno “scolastico”. Per cui, non possiamo che augurarci buona fortuna, però in senso stretto. Eh sì, perché per i nostri antenati questo termine non era serrato tra le parole denaro, patrimonio o caso. La fortuna era il vento. Provate ad andare a Firenze, Santa Maria Novella, trabeazione, facciata destra: Giovanni Rucellai, commerciante, amico dei Medici e mecenate, fa incastonare a Leon Battista Alberti il suo stemma tra le pietre. Rappresenta la vela della fortuna, gonfia di buon vento. Come si resiste alle correnti che possono essere contrarie? Un mercante di mare come Rucellai doveva saperne parecchio. Più che l’evento, più o meno avverso, è sempre la nostra risposta a segnare il passo. “Prudenza, pazienza e magnanimità” era la ricetta per avere il vento/fortuna più o meno in poppa. Prendiamo allora il largo, armati idealmente di stilografica, le vele bianche saranno le pagine nuove su cui scrivere le storie di quest’anno che comincia. Buon vento a tutti!

Partita doppia di fine estate

Questo periodo dell’anno è sempre un po’ di cerniera. Il solleone fa ancora angolo retto, eppure gli appuntamenti dell’anno che riparte proiettano un’ombra lunga ben più interessante. La 79. Mostra del Cinema di Venezia aprirà mercoledì 31 agosto. Ma anche se fa novanta (correva infatti l’anno 1932), non sta glissando le sue domande: sceneggiature scritte da un ghostwriter chiamato algoritmo, fast and furios della quantità e sale sostituite da i-pad. Questi alcuni crucci del settore. Eppure, se di fine agosto e momenti di passaggio si parla, allora si fa largo madame arena. Anche questa estate ha portato il cinema in piazze sconosciute e d’ordinanza; ha accolto viandanti vacanzieri e cittadini, soli e in combriccola. È stata insomma una generosa locandiera di immagini. Francis Ford Coppola a 82 anni spera che il cinema ce la farà; del resto è già successo al teatro di Sofocle e di Euripide. Walter Benjamin nel 1936 profetizzava un’epoca in cui saremmo stati approvvigionati d’immagini: sarebbero arrivate in casa “come l’acqua o l’elettricità”. È successo puntualmente. Lo studioso in realtà un po’ ce l’aveva con il cinema, ne temeva distrazione e divismo; ma oggi lo chiamiamo settima arte. Per rimanere tale, come qualcosa che irrompe e lascia la sua scia, ha bisogno di un mezzo e di un messaggio. Ai registi la possibilità di disegnarlo liberamente. A noi spettatori la scelta di non cancellarlo. La partita è aperta e a tutti non resta che sedersi comodi.

Rammendo d’agosto

Il concetto di riposo ad agosto non è certamente un fatto nuovo. Se luglio per gli antichi romani era targato gens “Julia”, le successive 31 tintarelle di luna appartenevano invece al primo imperatore. Ottaviano Augusto ci tenne però a rivendicare questo periodo solo al plurale: per cui si è sempre parlato di “Feriae Augusti”. Che la vacanza, letteralmente il vuoto di impegni e pensieri, non dovesse durare solo un giorno. Forse perché, oggi come allora, in questo momento dell’anno ci si sente come bisognosi di rammendo. L’augurio per questo Ferragosto allora, è che arrivi un’alta marea di “buon vuoto”: a settembre torneremo in piena, tirati a nuovo e rivoltati come un calzino.

Un brand incancellabile

Il Colosseo (I sec. d.C.). è la punta dell’iceberg di molte storie che, nel tempo, ne hanno fatto un marcatore non solo urbano ma anche economico: il vento dei saccheggi d’altro canto soffiava sempre dove c’era bisogno di qualcosa. Succedeva ad esempio nel tardoantico, quando Roma perse le miniere di ferro in Bretagna. Il metallo balzò all’apice dei desiderata, un po’ come altre materie prime oggi. Così, non era raro imbattersi in qualcuno che, per rubarlo, saliva su canestri fino alle giunture dei blocchi di travertino: ne parlano i buchi in facciata e un anello in meno. Ma la storia di questo icastico avanzo doveva vederne ancora delle belle… Nel Rinascimento, il popolo romano aveva fame e Sisto V pensò a un “Lanificio Colosseo”: botteghe ai piani alti, alloggi e manifatture in quelli bassi. Pollice verso, la morte del pontefice francescano sottrasse linfa a questo pauperismo un po’ estremo. Questa settimana Deloitte ha stimato che il “marchio” Colosseo vale 77 miliardi di euro e contribuisce per altri 1,4 al Pil italiano. La prova provata che è un brand temperato proprio a tutto e per questo incancellabile.

Un design con-gelato

Il cono nasce nel 1896 dall’intuizione di Italo Marchioni, un italiano che lavorava a Wall Street al passo del suo carretto di gelato. La necessità era di quelle cogenti: trovare un mezzo di trasporto per quella frozen mousse, evitando di rompere, lavare o trasportare i contenitori in vetro e metallo. Così, da oltre un secolo, la cialda di biscotto si fa packaging e design allo stesso tempo, guadagnando un posto d’onore tra gli oggetti del MoMA. L’umiltà dell’invenzione è ormai una parente lontana dell’efficacia iconica: chiudendo gli occhi, il cono apparirà sempre una frazione di secondo prima della coppetta. Ciò dimostra che è la calza migliore per contenere il gelato, almeno secondo il modo “economico” della mente nell’organizzare segni e ricordi. È intatta da più di un secolo e non si scioglie al passar delle mode. Ci verrebbe da chiamarlo icono-gelato.