Milano, città della ribalta

La design week milanese è una mise en scène di un potenziale e un primato riconosciuti nel mondo. Ciò si basa su un’idea di design, il furniture design, formatosi storicamente nel tessuto stesso della città, rappresentato dal 1961 dalla fiera (il Salone del Mobile) e dal 1990, grazie alla rivista Interni, dal FuoriSalone quale sistema di eventi in città. “La questione da porsi oggi”, commenta Antonio Romano, “proprio nell’edizione in cui la proposta deve fare i conti anche con i dazi imposti da Trump, è sul rafforzamento dell’identità del Salone del Mobile e sul ruolo che la Design Week dovrà interpretare. In prospettiva, non può essere circoscritto il tutto al furniture design (e alle sue derivazioni più prossime), proprio mentre la parola design diventa quella più aggettivata in ogni vocabolario … persino il filosofo Luciano Floridi definisce la sua materia un design concettuale! A preoccuparmi, in definitiva, è il successo che si traduce in autocelebrazione. È necessario, perciò, che la Design Week si apra alle varie dimensioni della disciplina per capirne le interazioni, facendo leva sulla storica capacità di Milano di attrarre la creatività”. In che modo Milano e la design week possono continuare a essere attrattive? “Bisogna ripensare il FuoriSalone senza indebolire il Salone del Mobile. È necessario promuovere un palinsesto di eventi in città non meramente legati a ciò che accade in fiera, al mobile, conservando la qualità del genius loci ma aprendosi a esperienze internazionali che vedano Milano come città della ribalta perché capace di valorizzare anche l’attrattività verso altre ‘capability’. Ma se la kermesse rimane troppo focalizzata sulla logica degli eventi o diventa troppo autoincensante, non ha molto davanti. Non bisogna fare dell’immanenza del presente, del ‘new & more new’ basato sulle misurazioni che portano i ‘cuoricini’, l’elemento chiave di tutto”. Che significa Milano per Inarea? “Abbiamo aperto i nostri uffici milanesi nel 1988: l’Enichem era diventato un cliente importante e dovevamo garantire una presenza pressoché quotidiana. Poco tempo dopo, arrivarono Snam e Union Carbide e, con quest’ultima, avviammo una collaborazione a livello europeo. Perché la Milano dell’epoca era anche questo: una capitale del design dove poter incontrare le realtà internazionali. E i primi clienti all’estero li conquistammo proprio grazie al nostro essere qui.Nel 1999 vincemmo la gara per il redesign dello stemma e la riorganizzazione del sistema di identità del Comune di Milano. Il progetto ci permise di cogliere l’essenza della Città, in una fase critica della propria storia, esaltando il binomio caratteristico di Milano: l’attaccamento alle tradizioni e l’amore per l’innovazione. Il nuovo disegno dello stemma soppiantò in breve tempo tutte le versioni preesistenti ma il cuore dell’intervento era nella volontà di fare della stessa parola Milano un brand. D’altro canto, se molte realtà imprenditoriali (a partire da Prada) associavano al loro marchio il proprio essere a Milano, evidentemente la Città costituiva (e continua a costituire) un valore aggiunto. Disegnammo perciò un carattere tipografico – denominato appunto Milano City – e isolammo la parola dalla dicitura “Comune di Milano” … Il progetto si fermò con la fine del mandato della Giunta Albertini: sopravvive ancora ma è stato assoggettato a dei rimaneggiamenti. In quegli anni di profonda trasformazione urbana realizzammo anche dei progetti di branding significativi per interventi di real estate, che hanno modificato lo skyline della città: Milano Santa Giulia, prima, e qualche anno dopo Milano Porta Nuova; seguì poi Pirelli RE (oggi Prelios). Per restare nell’ambito delle realtà-istituzioni di Milano, vale la pena ricordare i rebranding di Borsa Italiana e di Edison. E, sempre nel campo dell’energia, firmammo anche il nome e il brand della nuova multiutility lombarda A2A. Nello stesso meta-settore, ma in tempi più recenti, i rebranding di Snam e di Italgas e, continuando a memoria, le brand identity del Fondo Infrastrutturale Italiano F2i, la Fondazione Cariplo, la Fondazione Fiera Milano, Conservatorio di Milano, Casa Milan e tanti altri interventi magari nati a Milano ma destinati altrove, come ad esempio la brand identity della Biennale di Venezia, che meriterebbero di essere ricordati … Ci sono poi i progetti che conservano continuità nel tempo e toccano il quotidiano dei cittadini milanesi, come ad esempio la razionalizzazione del wayfinding di ATM, dove è stata ridisegnata  la segnaletica (il sistema dei pittogrammi) e creato un carattere tipografico display (Metro Type)”.

Enrico Giaretta. Che cos’è il sound design

“In un mondo saturo di immagini, il suono è uno degli elementi che più richiama l’attenzione. Anche ad occhi chiusi”, esordisce Enrico Giaretta, musicista e compositore (o meglio “cantaviatore”), Sonic Brand Director in Inarea. Dopo svariate esperienze in agenzie oltreoceano, Giaretta porta dentro Inarea un modo diverso di progettare il sound design, focalizzato su un concetto cardine, una “fonte sonora pura” alla base dei molteplici output. “L’obiettivo è dare al brand uno strumento di comunicazione che si inserisca in modo sinfonico nel suo mondo identitario. In generale, realizzare un suono non è complesso, lo è crearne uno capace di integrarsi a tutti i livelli e linguaggi della comunicazione aziendale. Un po’ come il colore rosso di Valentino Garavani che, a prescindere dal capo in cui è utilizzato, viene sempre ricondotto allo stilista”. Come si costruisce l’identità sonora di un brand? “Una volta compresi i contenuti, i valori e i significati associati a un brand e le preesistenze sonore con i relativi fonemi tipici”, continua Giaretta, “andiamo a individuare i touchpoint fisici e digitali in cui il brand può essere percepito. Ad esempio, i suoni sotto gli 80 Hz non sono udibili su tutti i dispositivi mobili, mentre in un ambiente come uno stadio le frequenze possono scendere ben al di sotto degli 80 Hz. Successivamente andiamo a definire il DNA sonoro del brand: quella fonte unica e riconoscibile che consente al marchio di essere immediatamente associato al proprio suono. Per esempio, l’essenza di Banca Ifis è contraddistinta da un ‘glissato’ che rimanda al pay off ‘il valore di crescere insieme’; per Bauli abbiamo scelto la nota La3 (a 440 Hz), ovvero la ‘corista’ del diapason, riferimento per l’accordatura di quasi tutti gli strumenti, che abbiamo associato all’animazione della lettera ‘i’ alla fine del sound logo”. Il marchio sonoro è solitamente inferiore ai due secondi. Più è breve ed essenziale, più è efficace e memorizzabile e, di conseguenza, durevole nel tempo. Verso un futuro sonoro: l’alfabeto musicale di Inarea Se la parola è sempre più intrinsecamente legata al suono e quest’ultimo alla percezione l’essere umano reagisce con più rapidità allo stimolo sonoro rispetto a qualsiasi altro: in 0,146 secondi il cervello recepisce e interpreta un suono –, allora il passo successivo può essere abilitare la comunicazione di un brand alla sola musica. “Con questo obiettivo, in Inarea stiamo sviluppando il concetto di ‘alfabeto sonoro’ che associa una nota a ogni lettera creando un linguaggio universale. È uno strumento pervasivo e coinvolgente che, da una cellula sonora identificativa, può trasformarsi in piccole melodie e perfino in brand theme complessi. Si pensi alla Sinfonia n. 5 di Beethoven che nasce dall’evoluzione di una semplice cellula ritmica di sole quattro note”.

Un’enciclopedia di 100 anni nell’era del digitale

“Un secolo fa”, esordisce Antonio Romano, “Giovanni Treccani e Giovanni Gentile riunirono le migliori intelligenze dell’epoca per dar vita  un ‘nostro’ nation building, espresso attraverso l’unitarietà dell’identità culturale italiana. La prima edizione dell’Enciclopedia Treccani vide la luce nel 1929 e fu completata nel 1937: 35 volumi, più uno di indici, che hanno fatto da fondale a tanti ritratti di personalità importanti. Nasceva un ‘monumento da interni’ che si è arricchito nel tempo e ha arricchito il sapere di molti. Poi, con l’avvento del digitale, questo patrimonio si è dematerializzato ma non ha perso la sua autorevolezza. I lemmi della Treccani sono l’espressione più accreditata e appropriata anche nelle ricerche su Google: una certificazione che pone dei punti fermi rispetto a l’aleatorietà di Wikipedia o all’approssimazione dei social media o, più in generale, della rete.” Che significato ha un’enciclopedia online nell’era del digitale? “Seppure la visione di un Sapere enciclopedico e unitario sia piuttosto anacronistica nell’era di Google, il senso e soprattutto il valore contemporaneo dell’Enciclopedia Treccani è quello di essere un riferimento universalmente riconosciuto. È un merito importante in un’epoca di fake news, in cui non siamo più capaci di leggere i fenomeni attraverso i nessi di causa/effetto. Il processo di digitalizzazione di Treccani è stato avviato nel 1993 da Rita Levi Montalcini, allora presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, con l’obiettivo di farne un  punto di riferimento per le nuove generazioni. Ciò che allora non era prevedibile, e che ne rende la fruizione online ancora più rilevante, è che con il digitale e i social media siamo passati da una cultura del visivo, tipica del secolo scorso, a una della parola scritta. Tutto si consuma attraverso le stringhe di Google che ha cambiato, per usare le parole di Alessandro Baricco, la nostra postura rispetto alla vita”. Come è possibile tradurre il patrimonio dell’enciclopedia in chiave multimediale? “Alla base del rebranding sviluppato nel 2020, c’è la volontà di creare una relazione con un’identità immateriale a cui si attribuisce autorevolezza. Abbiamo dovuto riallineare la brand architecture, che era declinata in un sistema di prodotti editoriali (e non solo), rendendola unitaria e fruibile nella multimedialità del digitale. Abbiamo modificato la T “albero” e cambiato il precedente font in un Sans Serif (in italiano, bastoni, senza grazie) per assicurare una migliore leggibilità anche a dimensioni minime. Abbiamo infine trasposto il tema della cornice, che caratterizza la composizione rigorosa dell’editoria Treccani e che proviene sia dalla cultura razionalista sia dalla tradizione della legatoria, nei motivi a cornice ricorrenti in tutti i nuovi format editoriali dal digitale al cartaceo”. Leggi la descrizione di Antonio Romano dell’identità visiva per Treccani

Monica Solimeno. Riflessioni e backstage del Calendario Inarea

Con un linguaggio poetico e ironico il Calendario Inarea da oltre trent’anni rintraccia i temi della nostra attualità come l’attenzione alla sostenibilità e interpreta attitudini del nostro quotidiano, come la relazione con gli animali domestici o i ferri del mestiere in contrasto con l’inarrestabile smaterializzazione digitale. Eppure, pur nella sua capacità di essere sintesi e leggerezza di pensiero, il Calendario ha un consuntivo di preparazione piuttosto pesante: ciascuno prevede circa settanta schizzi preparatori, una trentina di disegni semi-definitivi con indicazioni dei materiali da usare, oltre venti mock-up da fotografare, altrettanti scatti fotografici con post produzione (scontorno, foto-ritocco, due o tre proposte di impaginazione e prove stampa), il confezionamento e la spedizione. Si inizia a pensare al tema all’inizio dell’anno per l’uscita alla fine dello stesso; è coinvolto un team di “fedelissimi”, una decina di designer, sempre gli stessi, perché è difficile entrare nella complessità di questo progetto. Se nel 1991 il primo Calendario veniva inviato a circa 1500 persone, il numero dei venticinque anni (2016) è stato spedito a sedicimila indirizzi nel mondo. Ironia e sorpresa: gli ingredienti segreti del Calendario Il Calendario persegue un’irrinunciabile qualità a cui partecipano anche il formato (48,5×34 cm), il fondo bianco e la stampa tipografica. “L’elemento sorpresa è il suo elemento principale”, precisa Monica Solimeno, Project director in Inarea che da oltre quindici anni segue questo progetto. “L’effetto inaspettato è dato dal gioco semiotico e dalla decontestualizzazione di materiali del quotidiano nella creazione dei soggetti. Le figure nascono dalla corrispondenza formale con questi materiali o da una composizione di più elementi. Più è essenziale la forma, più è efficace il risultato. Questo codice linguistico nasce dalla sistematizzazione di un modo di comunicare, visibile già negli anni Ottanta, che consiste nell’organizzazione di immagini attraverso l’astrazione di ready made. Il Calendario esprime capacità di sintesi, essenzialità e cura del dettaglio che è il DNA stesso di Inarea e del suo modo interdisciplinare di lavorare (definito design plurale). Ad esempio, pur nella differente resa visiva, la forma essenziale del tulipano nel logo di Sara Assicurazioni rappresenta un simile uso sia della metafora sia dell’astrazione del segno, nonché un analogo superamento del linguaggio comune di quell’ambito”. Come può trasformarsi il progetto del Calendario? Tenendo in considerazione che in oltre trent’anni il Calendario Inarea ha alimentato un’ampia fetta di sostenitori, è possibile rileggere questo progetto con strumenti nuovi senza tradirne l’identità? Se i mock-up sono tutt’ora realizzati a mano, può l’intelligenza artificiale sopperire in questa fase o facilitare quella del layout ideativo? “Qualche anno fa”, continua Solimeno, “si è provato a realizzare oggetti come tazze o tovagliette con alcuni dei soggetti dei calendari, ma quest’ultimi vivono su fondo bianco, su una carta di alta qualità e su stampa tipografica di alto livello. Trasferirli su sopporti di plastica non ha avuto la medesima resa. L’unica declinazione al di fuori del Calendario sono stati i quaderni e le shopping bag, in cui è stato possibile mantenere la qualità proprio perché in carta. Recentemente si è realizzata un’app che mostra tutto il lavoro dei 34 anni. Al momento è una repository di immagini ma ha la potenzialità di creare un’interazione coinvolgente con gli utenti, creando una dimensione reciproca e biunivoca non possibile su carta, così da parlare anche a una generazione più giovane e legata ai device. Più di tre decenni di lavorazione del Calendario hanno prodotto un patrimonio di centinaia di immagini d’archivio tra schizzi, soggetti scartati, work in progress dei mock-up e fotografie analogiche e digitali. Un capitale dal grande potenziale creativo del quale è possibile mantenere l’ironia di fondo per un gioco senza età”. Ancora una volta, è già tutto a disposizione per nuove associazioni e interazioni. SCOPRI I CALENDARI DI INAREA