Pasqua con chi vuoi: uova o coniglio?

Le credenze sono quelle che vengono aperte in questi giorni, allungando il fiuto in cerca di cioccolato. Ma le credenze sono anche quelle che spuntano come ciuffi d’erba su simboli o storie, e il coniglio ne ha così tante sulle spalle da poterci fare i traslochi: a seconda del contesto, la nostra cultura lo vuole o pavido, o prolifico a più non posso. Questa settimana – buon per lui – sarà solo la candida mascotte della Pasqua. In realtà, inizialmente questo era un affare della sua cugina di primo grado, la lepre, animale sacro alla dea germanica Eostre; da lì ad “Easter” il passo è stato breve… Dunque, anche il marketing degli ultimi cento anni, poggia su una credenza sbagliata. Ma, che si tratti di un mobile da cucina o di un’opinione diffusa, non è poi così importante. A contare è la festa. E quella di primavera è simbolo di rinascita: l’uovo infatti significa nuova vita ma, se ci si aspetta una stagione davvero prolifica, il coraggio non serve e il coniglio resta imbattibile! Tanti auguri, buona Pasqua!

Con i pugni nella città

Parigi, Roma, New York o Londra: ciò che le accomuna è che, a ogni latitudine, possono metterci ko. Allora, per risollevare gli animi, occorre chiamare le persone all’adunata e non c’è miglior modo che affidare questo compito alle emozioni. Ne era conscio Milton Glaser, il grande designer che nel 1977 creò quel logo dove mise un cuore tra l’“Io” e NY, New York. Con una piccola centrifuga di parole, se invece di “love” ci chiedessimo prima “what I owe to the city” il risultato non cambierebbe; siamo sicuri che nei primi tre pensieri ci sarebbe la parola amore. Alla città dobbiamo l’amore per le persone o per il lavoro che ci ha fatto trovare, magari grazie a incontri impossibili altrove. Persino chi viene da un piccolo centro, della città ama quel lusso dell’anonimato che solo essa sa dare… È successo che quel logo della Grande Mela è andato in pensione; ora c’è un nuovo font (ispirato al lettering della metro) e il “we love”. Nella cabina di regia è implicito l’invito alla comunità a prendersi cura della città; basta un’ora a settimana, dicono. Il “what we do for the city”, premiando la relazione, potrebbe diventare il nuovo mantra. Ricordiamocelo ogni volta in cui facciamo a pugni con la nostra città: la lista dei destri che ci rifila tutti i giorni sarebbe lunga. Per sportività, ci fermiamo qua.  

Co(s)mic death

Il colmo per chi scrive tragedie è quello di morire in modo quasi comico. Stasera scatterà la primavera, eppure è passata già qualche settimana da quando abbiamo cominciato a orientare le antenne verso il sole. Lo faceva anche Eschilo in una giornata del 456 a.C., mentre si godeva il tepore salino fuori dalla sua casa di Gela. Senonché un’aquila, scambiando la sua testa calva per una roccia, gli scagliò una tartaruga in testa, sperando di romperne la corazza per mangiarla… La primavera ha sempre a che fare con qualcosa nell’aria: l’amore, diceva una vecchia canzone o i pollini che ricamano il cielo. Tutto piomba all’improvviso, nel mezzo di marzo. Noi ci auguriamo invece che la stagione si “affretti lentamente” ritardando un po’ quella dopo, come fa la tartaruga sullo stemma dei Medici. Per questo l’abbiamo immaginata un po’ acerba, dura a schiudersi. Tra tre mesi saremo testuggini rintanate in carapaci ad aria condizionata. Ma lo stare al riparo dal solleone può avere i suoi vantaggi. Memento Eschilo…

Pensiero incompleto

«Fratelli e sorelle, buonasera!». È un saluto che vibra di familiarità e che detto da un signore affacciato dal balcone di Piazza San Pietro, 10 anni fa, diventa una linea di indirizzo. È quella di Francesco, eletto Papa il 13 marzo 2013. Come designer, abbiamo a cuore il momento del progetto, che arriva sempre quando si entra nella dimensione mentale che ci espropria: si gettano i semi, sperando trabocchino in qualche falda ignota… Data questa premessa, troviamo abbastanza affascinante una certa angolatura di Jorge Bergoglio. Parla spesso di «pensiero incompleto», un antitodo per arrivare alle cose, facendo un po’ a meno di sé stessi. È un concetto fronte-retro. Il pensiero incompleto fa cedere sempre il passo a qualcosa: relazione, Dio, amore, creatività e, nel nostro piccolissimo, immaginazione. Di questi “tempi moderni” una filosofia versatile nel presente è tra quelle per cui vale la pena di togliersi il cappello.

Le sorprese della luna del verme

Da questa sera comincerà a farsi avanti una luna che sarà piena domani, il 7 marzo. È nota come “luna del verme”, un nome che affonda in echi di semine, lombrichi e piogge di primavera. Oltre a non brillar mai di luce propria, il satellite della terra questo mese è anche invertebrato, praticamente senza colonna. A pensarci bene, qual è la zona di comfort dei nostri amici striscianti? Una mela, ad esempio. Chiudendo gli occhi è possibile: la prima che verrà in mente sarà quella di un brand, circonfusa di led; ma se è stata appena morsa dall’uomo, vuol dire abbiamo sfrattato la natura… Potremmo fare come Caravaggio che, per farci riflettere sul perché una mela è “abitata” da un piccolo essere, dipinse la canestra di frutta più su dell’occhio, forzandoci a tendere il collo. “The worm moon” potrebbe essere invece un invito a piegarci un po’, magari solo per un momento ad ascoltare i ritmi della terra. Dunque, cosa chiedere alla luna di queste due sere? Proprio perché bacata, di fare miracoli.

C’era una volta il 30 febbraio

L’Amleto di Shakespeare diceva che «il tempo è fuori dai cardini» e che lui era nato per rimetterlo a posto. C’è stato chi l’ha preso alla lettera. Nel 1712 Carlo XII di Svezia si vide costretto a dotare il suo febbraio di un giorno in più oltre il 29, a causa di complicati incastri tra calendari. Molto tempo prima, era stato Augusto a rubare un giorno a febbraio, per portare a 31 quelli del “suo” mese, agosto, appunto. Quel 30 febbraio è rimasto perciò un unicum, un po’ rannicchiato nelle pieghe della storia: non sappiamo se qualche soldato svedese si distinse in battaglia (era in corso una guerra con la Russia di Pietro il Grande) o se c’è stato qualcosa degno di nota. Quelle 24 ore cercano ancora il loro quid; non ci resta che provare a cercarlo. Come ogni lunedì, l’agenda si sta riempendo di cose da fare, ma sappiamo che alcune non riusciremo proprio a defenestrarle: commissioni, giri a vuoto, fuochi fatui. Si potrebbe rimandare tutto al 30 febbraio, la giornata mondiale dei disegni procrastinati. Tanto, al rintocco di marzo, nessuno potrà venirci a chiedere il conto.

A Carnevale il comico non vale

Una cosa bella del Carnevale è che fa di tutti i contrari dei coinquilini placidi: il popolare e l’agiato, giovane e agé, mesti e no. Ma non esiste un costume che identifichi il comico dall’umorista. Per questo, proviamo a fare un po’ di chiarezza. Luigi Pirandello scriveva che al vedere in strada una donna “parata come un pappagallo” è probabile che arriverà una risata. In lei, infatti, c’è qualcosa che avvertiamo come contrario al canone. Può essere, però, che la stessa signora non provi alcun piacere ad abbigliarsi in quel modo; dietro quei paramenti potrebbe esserci un marito da trattenere, o anni che si è restii a contare… Lo scrittore conclude che la riflessione ci fa avvertire il sentimento del contrario e il comico sfiorirà a vantaggio dell’humor. Ci guadagna la signora, per cui ogni giorno sarà Carnevale: variopinta ma nel lusso dell’anonimato. Ma ci guadagna anche chi è dall’altra parte: un po’ di r-humor-e nell’ordinario restituisce quella sensazione di sentirsi sempre freschi come un fiore.   

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

Oggi è il giorno prima del 14 febbraio e qualche lettore con i capelli trafilati all’argento ricorderà un proverbio che parlava della solita minestra, o di voli dalla finestra; il motto era stato poi ripreso anche da una pubblicità. La chiameremo routine, certo. Ma siamo sicuri che sia un vincolo così cieco? Parlare d’amore potrebbe implicare realizzare che molte cose derubricate come “minestra” non solo esistono, ma si può addirittura parlarne “anche se (o proprio perché) non sai esattamente di cosa parli”, scrive Diego De Silva nella prefazione di un libro di Raymond Carver che dà il titolo all’appuntamento di oggi. Potremmo cominciare a contare tutte le azioni che non saltano mai la staccionata del memorabile, magari le fette biscottate già spalmate o il caffè fumante. Amore, in realtà, è una marcia con chi ci apparecchia la vita.

Grazie dei fior?

La coltivazione dei fiori sulla costa ligure ci porta alla seconda metà dell’Ottocento, quando i contadini della riviera caricavano grandi ceste di rose e garofani sui treni diretti al continente; sembra che i nobili europei non resistessero a questi fiori speziati di maestrale e, ancora oggi, San Remo ha il primato nazionale nel settore. Nel 2022 l’Università di Torino ha usato l’intelligenza artificiale per processare 1741 canzoni del Festival dal 1951 in poi, seguendo le 8 emozioni definite come “fondamentali” dallo psicologo americano Plutchik: fiducia, sorpresa, disgusto, gioia, rabbia, paura, tristezza e anticipazione del futuro. Il risultato è abbastanza prevedibile, perché ciò che fa rima con stare-bene fa la parte del leone, col benestare di tutta la filiera: sull’onda del “positive bias”, se la melodia ha un suo che di rassicurante sarà allora canticchiata, dedicata e agguantata dai mass media, vecchi e nuovi. L’Accademia della Crusca già nel 2010 confermava con metodi analogici che in vetta a questa escalation c’è la parola amore, in assoluto la più ricorrente. C’è un fatto però, e cioè che nonostante questo giardino di delizie, il sentimento sanremese suona parecchie dolenti note: ogni tanto è smarrito, altre appassito, attenzione alle spine e soprattutto all’infedele. Ma se è vero che l’associazione di cane e fedeltà non è mai stata stonata, non ci resta che mettere il sentimento al guinzaglio e il problema sarà risolto “alla radice”.

Punti di fuga

Nei quadri il punto di fuga è il luogo in cui si raccoglie la prospettiva e l’occhio si ferma; chi ci dice che non preferirebbe vagare ancora? Un po’ come fa l’’“Astronomo” di Vermeer che oggi si trova al Louvre, ma un tempo era dei Rothschild, la famiglia di banchieri ebrei. L’opera entrò nelle brame del Führer e venne requisita nel 1940 quando i tedeschi presero Parigi: volevano salvarla dal collezionismo non-ariano, degenerato. Finito il conflitto l’opera tornerà in Francia ma sul retro è ancora impressa una piccola svastica. Più o meno negli stessi anni l’Italia pullulava di funzionari in abuso d’ufficio: prendevano le opere e le scortavano a bordo di una Topolino fino alle fortezze di provincia, dove erano più al sicuro dalle bombe; oppure si tenevano qualche giorno un Piero della Francesca in salotto pur di farlo rimanere a “casa”. È accaduto alla “Madonna di Senigallia” l’immagine che abbiamo scelto per raccontare la mostra “Arte Liberata. 1937-47” alle Scuderie del Quirinale. Il visitatore è invitato a proseguire il de-packaging del manifesto nelle sale espositive, dove troverà tutta l’epopea di questi “Monuments Men”. La mostra è aperta fino al 10 aprile ma ne parliamo oggi per ricordarci che la memoria è un allenamento: inizia ogni anno il 28 gennaio e prosegue fino al 27 di quello dopo. Il Bambino di Piero tiene in mano un fiore, ed è lì che immaginiamo il punto di fuga della nostra farfalla. Una pennellata che devia e torna alla storia grande, così da iniziare a non dimenticare.