Sanità e identità

Dagli ospedali alle fondazioni, dalle aziende farmaceutiche ai sistemi regionali, Inarea ha raccontato la salute attraverso la brand identity. Ogni progetto è un modo per rendere visibile la “cura”: nei segni, nei nomi, negli spazi. E soprattutto, nella relazione. Sanità pubblica: uniformare per umanizzare I progetti di identità per le Regioni Emilia-Romagna e Lazio hanno introdotto una logica di “umbrella brand” capace di dare coerenza a un sistema complesso e spesso eterogeneo e stratificato. Salute Lazio è un esempio di razionalizzazione che va oltre l’estetica: rende riconoscibili servizi, ospedali e comunicazioni, favorendo un linguaggio univoco tra istituzioni e cittadini. L’obiettivo è creare una sanità più accessibile e leggibile, dove il segno grafico diventa conferma implicita per il cittadino e quindi garanzia.Il rebranding di Salute Lazio ha preso forma attraverso un intervento strategico che ha semplificato e unificato l’identità del sistema sanitario regionale. Il nuovo nome, “Salute Lazio”, è stato accompagnato dalla specifica “Sistema Sanitario Regionale”, mentre il marchio è stato progettato per evocare visivamente la croce rossa, simbolo universale della sanità. Il segno grafico, derivato dalla lettera ‘L’ di Lazio, ricompone idealmente una croce rossa/blu ed è stato utilizzato come elemento distintivo in tutta la comunicazione, creando un sistema coerente e facilmente riconoscibile. Questo approccio ha permesso di integrare le diverse strutture sanitarie regionali, sotto un’unica identità, facilitando e razionalizzando l’insieme dell’offerta dei servizi e migliorando l’efficacia della comunicazione istituzionale. Ospedali e fondazioni: spazi che accolgono Dal Policlinico Gemelli all’Ospedale Bambino Gesù, fino alla Fondazione Santa Lucia, Inarea ha accompagnato queste prestigiose realtà nella costruzione di  un’identità visiva in grado di rendere gli ambienti ospedalieri più contemporanei ed empatici. Il sistema di wayfinding del Gemelli, ispirato ai grandi hub aeroportuali, nasce per facilitare il movimento del paziente, restituendo autonomia e sicurezza. La sua brand identity, costruita in occasione del cinquantesimo anniversario, traduce in segno visivo i valori fondativi dell’istituto: radice cattolica, attenzione alla persona e visione della cura come atto vitale. Il blu Gemelli e la “G” che si apre in una croce, foglie e figura umana, raccontano una medicina che unisce fede, scienza e umanità. Nel caso della Santa Lucia, il simbolo dell’Albero della vita evoca il senso della rinascita, richiamando al tempo stesso i due emisferi del cervello umano: radici e pensiero, materia e mente. Industria e ricerca: quando il brand unifica La sanità privata e il mondo farmaceutico rappresentano l’altra metà del racconto. Inarea ha firmato l’identità del gruppo GVM (Gruppo Villa Maria), semplificandone il nome e rafforzandone il posizionamento come rete di eccellenza nell’ambito della cura e della ricerca.Il progetto Angelini Industries ha invece unificato attività molto diverse tra loro, anteponendo la direzione e lo scopo (purpose) alle specifiche tradizionali, legate al prodotto: l’ambito farmaceutico, infatti, rappresenta poco più della metà del sistema.Il caso Aventis Pharma, dei primi anni Duemila, rappresenta un caso paradigmatico nella storia del branding farmaceutico perché ha creato un sistema unificato di packaging dei prodotti etici per una multinazionale nata dalla fusione di sei brand diversi, dando una voce unica a farmaci distribuiti in tutto il mondo e mantenendo, al contempo, la piena conformità alle normative locali. È stato definito di fatto un codice visivo universale: un linguaggio di segni, colori e gerarchie informative capace di rendere immediata la lettura del farmaco, qualunque fosse il mercato di riferimento. L’operazione, a distanza di tempo, rimane un esempio importante di come il branding possa costituire non solo un valore identitario ma anche una leva organizzativa in grado di restituire ordine e chiarezza.. Le fondazioni del bene comune Da Smile House, che cura le malformazioni cranio-facciali, alla Fondazione Veronesi e alla Fondazione Piemontese per la ricerca sul cancro, il design diventa linguaggio etico. Ogni marchio è un atto di restituzione: un modo per dare volto alla solidarietà, alla ricerca, alla speranza. Per esempio, il rinnovo della brand identity della Fondazione Veronesi, ente che sostiene la ricerca scientifica d’eccellenza e diffonde la cultura della prevenzione, valorizza l’eredità del fondatore e, attraverso la “V” del logo, diventa segno umano e dinamico, capace di adattarsi ai diversi ambiti di ricerca rappresentati dal “ribbon”, simbolo universale di lotta e speranza. Anche nella sanità, il branding è infrastruttura di senso, uno strumento per rendere la cura più umana e, quindi, più efficace.

Relazione come cura

In un momento in cui tutto ruota attorno all’esperienza e all’identità personale, anche la medicina deve trovare modalità in linea con i tempi. L’healthcare non può essere solo il sistema che cura, ma deve diventare un ecosistema che si prende cura: della persona, dei suoi linguaggi e quindi dei suoi racconti, dei suoi spazi. E, come accade nel branding, la relazione diventa il cuore della fiducia. Ne parliamo con Antonio Romano. Da dove nasce il concetto moderno di healthcare? Le sue radici affondano nella medicina antica. Da Ippocrate alla Scuola Salernitana, la salute era un equilibrio tra elementi – aria, acqua, terra, fuoco – e umori. Con il tempo, la medicina si è spostata da una visione “geocentrica” a una “morbocentrica”, focalizzata sulla patologia più che sulla persona. Oggi siamo di fronte a un nuovo passaggio: dalla cura della malattia alla relazione che diventa cura. Cosa significa portare questa trasformazione nel branding? Significa considerare la “cura” non come un gesto ‘tecnico’, ma come un valore narrativo. I brand, proprio come i medici, non offrono più solo prodotti o servizi, ma esperienze di fiducia. L’healthcare diventa un ambito di comunicazione che mette al centro la persona, le sue emozioni e i suoi bisogni di comprensione. La “cura” si traduce così in linguaggi tarati sul paziente, in conseguente tono di voce, in spazi che accolgono. In che modo le strutture sanitarie devono adeguarsi a questa nuova prospettiva? È necessario superare l’organizzazione rigida e spesso impersonale degli ospedali. L’esperienza digitale ha abituato il cittadino a relazioni dirette, fluide, disintermediate in cui ciascuno individuo è sempre al centro. Anche la sanità deve adottare questa logica, con sistemi di orientamento più intuitivi, percorsi più chiari e un dialogo aperto. Il sistema di wayfinding del Policlinico Gemelli, ispirato alla segnaletica aeroportuale, ne è un esempio: pensato per chi deve trovare la propria destinazione, non per chi già conosce quegli spazi. Qual è il ruolo del design e dell’identità visiva in questo contesto? Fondamentale. Il branding è la grammatica che coordina le infinite storie che compongono il mondo della salute. Non si tratta solo di logo o colore, ma di coerenza tra comportamento, linguaggio e missione. Quando la Regione Lazio ha adottato un’identità unica come Salute Lazio, non è stata solo una scelta grafica ma un modo per rendere il sistema più riconoscibile, accessibile, umano. Quale esempio tra i case studies di Inarea meglio esprime il concetto di “cura”? Il rebranding di Assogenerici in Egualia è emblematico. Da un’associazione percepita come industria di farmaci equivalenti, si è passati a un racconto fondato sull’articolo 3 della Costituzione: uguaglianza come valore di equità nella salute. Non più “produttori di copie”, ma promotori del diritto alla cura per tutti. Qual è la sfida culturale del futuro? Rimettere la persona al centro. Il digitale ci ha insegnato che tutto parte dall’“io”, ma nella sanità questo “io” deve superare la tradizionale sudditanza del cittadino reso contraente ancora più debole perché divenuto “paziente”, deve sentirsi accolto, non isolato. La medicina relazionale è la vera frontiera dell’healthcare contemporaneo: una medicina che ascolta, accompagna e, soprattutto, comunica.

Raccontare l’università: coerenza e identità in un mondo connesso

Immagine evidenza Articolo Luglio

Un’università non è solo l’ente che insegna. È un mondo che si racconta, che coinvolge chi la sceglie e che proietta il futuro che promette. E in un mondo sempre più connesso, emotivo e competitivo: è proprio il racconto che fa la differenza. Oggi un’università comunica su molti canali, per questo è indispensabile la coerenza sia online che offline. Siti, social, spazi fisici, eventi e materiali devono parlare la stessa lingua. L’esperienza digitale, in particolare, deve essere chiara e accessibile: è spesso il primo vero contatto con l’ateneo e può influenzare la percezione complessiva della sua identità e affidabilità. La brand identity di un ateneo è ciò che lo rende riconoscibile subito, ma anche nei messaggi che trasmette. Non è solo un logo e ancor meno un crest: è un mix. Dal naming ai colori, dal sito agli open day, ogni dettaglio di segni, tono e stile racconta chi sei e perché qualcuno dovrebbe sceglierti. Case Studies Conservatorio di Milano     Un logotipo dinamico unisce tipografie diverse per rappresentare la pluralità musicale. Il movimento grafico crea un segno visivo in continua trasformazione, mentre l’indicazione spaziale resta stabile, a radicare storia e identità. Sapienza     Un progetto di brand identity e brand architecture che ha razionalizzato la complessità di un grande ateneo, semplificando la denominazione, ridisegnando simboli storici e introducendo una tipografia proprietaria. Opit     Un progetto che comunica innovazione, flessibilità e impatto sociale in ambito formativo digitale. Un’identità visiva costruita su simboli binari, tipografia moderna e una palette dinamica per distinguersi nel panorama dell’educazione online. Case Studies LIUC     Una brand idenity che unisce cultura accademica e mondo dell’impresa, con un linguaggio sobrio e diretto. Il simbolo della costellazione richiama l’idea di futuro, mentre il blu comunica stabilità e affidabilità. LUISS     Un progetto che racconta un’idea di formazione come crescita continua, simboleggiata dalla colonna che diventa capitello. Un linguaggio visivo e tipografico coerente rafforza senso di appartenenza e apertura al sapere. Intercultura     Il brand design rafforza l’autonomia valorizzando il nome quale elemento centrale del logo. Il riferimento ad AFS resta sullo sfondo, segnando le origini ma sottolineando una visione evoluta e indipendente.

Branding e università: quando l’identità fa la differenza

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Anche nel settore educational, il branding è diventato un fattore strategico. In un panorama sempre più competitivo e globalizzato, costruire una brand identity solida e riconoscibile aiuta gli atenei a distinguersi, ad attrarre studenti e a posizionarsi in modo coerente nel sistema educativo e nel mercato del lavoro. Che cos’è la brand identity nel settore educational? È branded tutto ciò che non ha bisogno di essere spiegato. Aver studiato ad Harvard ad esempio, significa presentarsi con un background notevole poiché la fama dell’ateneo diventa una vera e propria garanzia per chi si è laureato lì, ovvero “brand is reputation”. L’urgenza di costruire un brand nel mondo accademico nasce da un momento di cambiamento sia del modo con cui si insegna, si veda il proliferare dell’offerta formativa online, sia del modo con cui si studia. La riduzione delle nascite porta a compensare il numero degli iscritti cercando di attrarre studenti stranieri. E dunque, per l’inevitabile concorrenza tra università, diventa urgente rappresentarsi al meglio. Costruire una brand identity solida e riconoscibile aiuta gli Atenei a distinguersi e a posizionarsi in modo coerente sia nel sistema educativo sia nel mercato del lavoro. Partiamo dall’esperienza con Sapienza Università di Roma. Quali furono le principali sfide? Il progetto di Sapienza Università di Roma, iniziato nel 2006, è stato tra i più complessi per dimensione e stratificazione storica. Parliamo di un ateneo con oltre 150.000 iscritti e una storia di sette secoli. L’obiettivo era costruire un’identità forte, capace di tenere insieme tante realtà diverse, quali scuole e dipartimenti, spesso scollegate tra loro. La riforma che andava a sostituire il sistema tradizionale incentrato sulle facoltà fu il contesto d’intervento. Abbiamo sviluppato un’architettura di brand rigorosa: Sapienza (senza “la”) come master brand, mentre dipartimenti e scuole sono stati identificati solo tipograficamente (con caratteri disegnati ad hoc), eliminando i relativi riferimenti simbolici. Una scelta che ha incontrato molte critiche all’inizio. Il colore porpora, invece del consueto blu “accademico”, è stato scelto per evocare i colori di Roma e sottolinearne il legame. Mentre il claim “Il futuro è passato qui” sintetizza il valore storico e l’eredità culturale dell’ateneo. Pubbliche o private, c’è una differenza nel modo di costruire il brand? Il metodo è lo stesso: analisi, strategia, visione. A cambiare è il singolo contesto. Le università pubbliche spesso devono razionalizzare un’eredità storica mentre le private, più giovani, puntano sulla legittimazione e l’attrattività. Ma oggi tutte, pubbliche o private, devono affrontare sfide simili. LUISS, ad esempio, ha saputo valorizzare il suo essere luogo di opportunità e di relazioni globali, rafforzando la fiducia di studenti e famiglie. Il rapporto di Inarea con l’Ateneo inizia nel 2017, con le celebrazioni dei suoi 40 anni, e si sviluppa poi in un progetto di rebranding. Un posizionamento chiaro e coerente, che ha beneficiato di un investimento continuo su un network internazionale. In maniera analoga, ma con esiti diversi, LIUC  (Università Cattaneo) ha lavorato sul rafforzamento della sua identità come ateneo legato al mondo industriale, connesso al territorio e proiettato nel futuro. Quanto conta l’esperienza, la user experience digitale nella percezione del brand? Tanto, perché l’esperienza oggi inizia prima dell’iscrizione: il sito, i materiali informativi, la navigazione digitale, tutto deve essere coerente, chiaro, attrattivo. La user experience è centrale, soprattutto per atenei che offrono un’ampia gamma di corsi. È in questa fase che si costruisce la relazione emotiva con il futuro studente. L’elemento differenziante può essere la storia, come nel caso di Sapienza, o la visione futura, come per OPIT – una realtà digitale che ha puntato su un corpo docente d’eccellenza come brand ambassador per attrarre studenti. In ogni caso, il brand deve generare fiducia, essere memorabile, riconoscibile ovunque, dai touchpoint digitali a quelli fisici. In quale direzione si sta muovendo la brand identity nel mondo educational? Sta diventando sempre più sistemica. Il brand non è più solo un logo o un colore, ma una forma di governo dell’identità. È ciò che costruisce significato nella mente delle persone. Con l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione, potremo vedere nuovi attori entrare in scena – pensate se Amazon decidesse di fondare un’università: la forza del brand sarebbe già un vantaggio competitivo enorme. Per questo, oggi più che mai, serve una visione ampia e un racconto capace di toccare l’intelligenza emotiva delle persone. Perché un brand forte, nel mondo dell’education, non racconta solo cosa sei: racconta dove puoi portare chi ti sceglie.

Dal Branding alla UX. Il design nel settore finanziario

Design e finanza sono profondamente connessi: ogni progetto contribuisce non solo a creare valore, ma anche a rafforzare la strategia complessiva dell’azienda. Mario Suglia esplora come, con la crescente digitalizzazione, sia possibile trasmettere l’identità di banche e assicurazioni in modo coinvolgente ed efficace, utilizzando strumenti come l’UX design e lo storytelling. Per una relazione con il cliente più empatica ma soprattutto autentica. Che relazione c’è tra finanza e design? E qual è l’approccio di Inarea ai progetti in ambito finance & banking? Oggi, la relazione tra finanza e design è diventata sempre più stretta e strategica. Non si tratta più di due ambiti così nettamente separati: ogni progetto di design crea valore economico e, dunque, genera finanza. In passato erano mondi separati: la finanza era concentrata perlopiù sulla gestione del denaro e sugli investimenti, mentre il design era impegnato a dare estetica, funzionalità e linee guida per la comunicazione corporate e di prodotto. Guardando con attenzione il secondo dopoguerra si possono però scorgere punti di contatto. Pensiamo a quanto furono incisivi per le vendite, dagli anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso (nel “boom economico”), il packaging, l’estetica e la pubblicità. Con l’avvento del consumismo si capii che un prodotto ben progettato ed esteticamente più bello e funzionale, si vendeva di più. Le aziende, quindi, erano ben felici di finanziare programmi di design pur di aumentare i profitti. Oggi, le imprese sono ben consapevoli che il design genera valore. Si pensi alle molte aziende cosiddette “design-driven” quali Apple, Tesla o Dyson ma anche Airbnb. Il design è alla “base” del capitale e determinante in termini di equity. Esistono fondi di venture capital specializzati in investimenti ‘corporate’ che privilegiano il design e la creatività. Mai sarebbe potuto succedere fino agli anni Ottanta del XX secolo. In questo senso, Inarea si distingue per il suo impegno nel dare forma ai significati propri dell’impresa attraverso un design capace di generare bellezza e valore, unendo logiche finanziarie, strategiche ed estetiche in un unico concetto di design: il design integrato (“integrated design”) che esprime significati e genera valore attraverso forme visive, sonore, olfattive, tattili per spazi e ambienti, digitali e persino comportamentali. È possibile trovare una metodologia generale nei progetti che Inarea ha seguito nel settore finanziario? Inarea ha adottato da tempo una metodologia che impone al gruppo di lavoro, in ogni fase del progetto, di rileggere l’“oggetto osservato” (azienda, prodotto, servizio, ecc) attraverso una strategia che lo riconfiguri all’interno del settore di riferimento e che, allo stesso tempo, tenga conto dei vari linguaggi di brand. Per esempio, se siamo chiamati a realizzare un sound logo, non andiamo necessariamente a modificare il marchio e i linguaggi di brand, ma li decodifichiamo per intuirne i significati e su questi progettiamo sonorità che si integrano ‘naturalmente’ nel sistema di identità. Si tratta quindi di un processo fortemente animato da ciò che abbiamo definito Integrated Design. E tale processo viene applicato su ogni realtà tenendo conto delle sue peculiarità.  Le istituzioni finanziarie con cui abbiamo lavorato negli ultimi anni, cito tra queste il Gruppo BCC Iccrea, Banca Ifis, BAPS e Sara Assicurazioni, presentano caratteristiche, storie e relazioni diverse. Per BCC il micro-territorio è il motore del suo agire e l’aspetto determinante nella costruzione del suo brand; lo stesso si può dire per BAPS, Banca Agricola Popolare di Sicilia, per la quale il territorio acquisisce centralità: da qui il positioning statement “Siamo la Sicilia prossima”, perché vuole essere una banca vicina alle imprese e alle persone, aiutandole a dare forma al proprio futuro. Individuare il contenuto più profondo, definire l’idea di futuro e darle forma: questo in ogni nostro intervento, quindi, anche nel mondo finance.  Inarea parte sempre dallo stesso presupposto: comprendere i significati più profondi e distintivi di ciascuna realtà e tradurli in un design coerente ed efficace. Il lavoro viene affidato a team interni con competenze verticali nel settore finanziario, supportati da chi ha competenze più ampie e trasversali, assicurando una rappresentazione mirata e conforme agli obiettivi strategici del brand. Quali cambiamenti apporterà la continua implementazione digitale all’esperienza in questo settore? Negli ultimi anni non c’è banca o istituzione finanziaria che non abbia compreso che il design, soprattutto l’UX/UI, il branding, il service design e la customer experience, non è solo una questione di estetica ma un asset strategico e patrimoniale, in grado di aumentare il valore finanziario. La digitalizzazione dei servizi finanziari sta trasformando radicalmente l’esperienza utente nel mondo finance. In un ambiente sempre più connesso e disintermediato, è fondamentale progettare esperienze digitali coinvolgenti, con un focus crescente nell’interazione emotiva (grazie al disegno di interfacce e di percorsi ‘belli’, semplici e funzionali) e allo storytelling. Le banche dovrebbero integrare strumenti narrativi e visivi, come storie autentiche, linguaggi leggeri, ironia ed eleganza, per compensare la riduzione di contatto umano e rafforzare il legame con i clienti. Nonostante gli aspetti normativi e di sicurezza restino imprescindibili, il futuro dell’identity design in ambito banking e finanziario dovrà sempre più essere orientato alla creazione di esperienze emozionali, dove il design non solo comunica ma coinvolge, fidelizza e ispira, andando oltre i numeri e le percentuali per scoprire e rivelare la relazione. Questo non solo in spazi digitali, ma anche negli spazi fisici, da ripensare quali elementi esperienziali, che accendono relazioni autentiche: da sportelli bancari a luoghi empatici, capaci di facilitare il dialogo. Quindi, anche le banche oggi dovrebbero essere design-driven, ovvero progettare esperienze in grado di attrarre, coinvolgere e fidelizzare l’utente attraverso un’interazione intuitiva e significativa (basata, cioè, su significati veri e profondi). Il focus non è più solo sul servizio ma sull’intero disegno della relazione: cosa vive e prova il cliente ogni volta che interagisce con la banca. Infine, le tecnologie di frontiera, prime tra tutte l’intelligenza artificiale e il quantum computing andranno a ridisegnare il rapporto tra banche, istituzioni finanziarie e clienti. Il design sarà ancora una volta centrale nella rappresentazione di nuovi “ambienti” e nel disegno di un nuovo concetto di relazione. Ma di questo ne potremo parlare in una prossima intervista.

BAPS, la banca che parla la lingua delle sue radici

Nella comunicazione bancaria emerge una chiara tendenza verso la semplificazione e l’affermazione di un tono autorevole e relazionale. Gli istituti di credito cercano di consolidare la fiducia attraverso un tone of voice sobrio e diretto, affiancato da una dimensione visiva essenziale. L’obiettivo è duplice: trasmettere solidità istituzionale e rafforzare l’identità del brand in un mercato sempre più digitale. “In quest’ottica”, racconta Emanuela Camera Roda, project director di Inarea, che ha guidato il progetto di brand identity per BAPS (la Banca Agricola Popolare di Sicilia), “si assiste a una progressiva convergenza della comunicazione verso il master brand anzichè la proposizione dei singoli prodotti. Quest’approccio favorisce coerenza, chiarezza e riconoscibilità lungo tutti i touchpoint – fisici e digitali”. Ma veniamo all’esperienza di BAPS, un progetto di brand identity nato da un’esigenza profonda: ridefinire l’identità di una banca storica senza tradire le sue radici territoriali. BAPS è infatti l’unico importante istituto di credito presente in tutta la regione a essere autenticamente siciliano. È una banca cooperativa per azioni e i suoi soci (spesso dipendenti) vivono e operano nell’isola. Il nuovo racconto ha voluto partire da questa unicità, recuperando i riferimenti storici dei movimenti cooperativistici che, tra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, diedero vita a forme organizzate in grado di restituire dignità a quelle fasce di popolazione disagiate, che non potevano avere accesso al credito. I simboli di quei movimenti erano spesso riferiti al mondo agricolo: la spiga di grano, la rosa, il mietitore, l’ape ecc.. In questo quadro, proprio per rimarcare il ‘carattere’ siciliano, è stata adottata come marchio la stilizzazione di una pala di fico d’India: una pianta presente in tutto il Mediterraneo ma fortemente radicata nel paesaggio dell’isola. Una scelta che vuole evocare in maniera semplice, iconica e ironica, la capacità di resistere a condizioni ambientali estreme, crescendo e moltiplicandosi. Al tempo stesso, è un segno capace di dare rappresentazione al legame fortissimo che unisce BAPS al suo territorio, superando l’iconografia ‘consueta’ del mondo bancario, in genere conservatrice. Il colore verde, nuovo protagonista del marchio, richiama direttamente il valore della parola ‘agricola’ presente nella denominazione della banca e si fa portavoce implicito di sostenibilità. Al contempo, il blu storico di BAPR viene mantenuto nella tipografia per preservare il tono istituzionale e la continuità con il passato. Il risultato è un’identità cromatica che bilancia natura e autorevolezza, passato e futuro. Un sistema coerente dal fisico al digitale Il progetto ha previsto una riorganizzazione sistemica dei brand di prodotto, eliminando marchi e simboli superflui e riportando tutto sotto l’ombrello visivo del master brand BAPS. Questa “brand concentration” ha coinvolto ogni aspetto della comunicazione: dalle insegne fisiche – adattate con sensibilità ai contesti specifici e locali – alle piattaforme digitali. La coerenza formale su tutti i canali è diventata fondamentale per rafforzare il senso di appartenenza all’universo BAPS, rendendo ogni touchpoint un elemento riconoscibile e rassicurante. Presenza territoriale e di prossimità Pur nell’era del digitale, BAPS ha scelto di non ridurre la propria presenza fisica. Al contrario, ha acquisito nuove filiali nel territorio siciliano, confermando che, soprattutto per una banca cooperativa e locale, il contatto umano resta centrale. Le filiali rappresentano presidi di fiducia, soprattutto nei piccoli centri, contribuendo a mantenere saldo il legame con le comunità. Il risultato è una nuova identità forte, coesa, contemporanea, ma profondamente radicata nella storia e nei valori della banca.

Musei e progetti culturali nel branding territoriale

Il branding territoriale è un processo strategico di comunicazione che viene a creare un’identità distintiva per un luogo aumentandone l’attrattività. Le caratteristiche uniche di un territorio, i suoi punti di forza e i valori sono sintetizzati in un’immagine univoca che lo rende riconoscibile e che ne aumenta la percezione positiva. La creazione di quest’immagine distintiva nasce dall’analisi e dalla sintesi della complessità del sito, poi tradotta in forma e segni, capaci di creare un collegamento simbolico e semantico verso un pubblico sia internazionale sia locale. Dietro ogni progetto di city o place branding c’è l’esigenza di organizzare la rappresentazione di realtà complesse secondo criteri di semplificazione, conformi allo spirito dei tempi e ai suoi mezzi di comunicazione. Alcuni casi di cultural branding di Inarea Tra city e cultural branding nel corso dei decenni Inarea ha realizzato molteplici progetti in cui la specificità culturale di un contesto è divenuta lo strumento per costruire l’identità, riconoscibile e apprezzata, di un’istituzione (si veda la Biennale di Venezia ) o di un’associazione culturale. In tali progetti culturali l’elemento prioritario e comune è stata l’esigenza di ricondurre a semplicità i bisogni e le complessità sottostanti al progetto, valorizzando quegli elementi unici e simbolici che creano relazione con il luogo. Tra gli esempi, Puglia, il nuovo ‘marchio unico’, adottato dalla Regione per rafforzare la proposizione unitaria del territorio rispetto alla pluralità dell’offerta (non solo turistico).Oppure il Museo MAXXI di Roma, in cui il riferimento alla contemporaneità e all’espressione delle arti del XXI secolo è comunicato dai caratteri del suffisso XXI in continua trasformazione. Per il 25° anniversario dell’Associazione Civita, Inarea ha coniato il claim “Civita arte a te” per esprimere il senso della relazione tra istituzioni culturali e persone: tanto più l’arte è vicina ai suoi fruitori, tanto più le si attribuisce valore. Quando il museo diventa branding Alla fine del XX secolo, i musei civici così come i teatri hanno vissuto una stagione di generale abbandono da parte delle istituzioni culturali, rendendoli al pubblico come qualcosa di obsoleto e lontano da sé. In seguito al rilancio del Musée du Louvre con la costruzione della Piramide di IM Pei, del relativo sistema segnaletico e dei nuovi servizi al suo interno tra cui il bookshop e il ristorante, è cambiata l’offerta all’interno dei musei che sono diventati uno strumento anche di entertainment e di business. Tutte le grandi istituzioni hanno seguito una strada simile, con l’adozione di un’identità di marca che nasceva dalle stesse regole delle organizzazioni e dei prodotti. Il processo di branding museale infatti non cambia, perché nella creazione di una brand identity si ricercano quegli elementi simbolici e valoriali che diventano linguaggi e quindi racconto, espressione. Purché coerenti: “non credo alle istituzioni che mettono i cuoricini. L’istituzione, sia pure resa fruibile e attrattiva, deve sempre ispirare un senso di identificazione e di rispetto”, precisa Antonio Romano.

Mario Suglia, General Manager. Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili.

Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili Mario Suglia, General Manager “La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità.” Potremmo dire che tutto è cominciato con un elefante. Probabilmente una mamma elefante. E con la sua spinta “gentile” al piccolo – si fa per dire: appena nato è già un quintale – magari usando la proboscide, per suggerirgli il cammino giusto, le abitudini sociali, uno stimolo a decidere, senza perdere tempo. Soprattutto per evitare che il piccolo elefantino, se mai avesse coscienza, potesse dire: perché mi tratti male? La domanda è quella che si pone Guido Stratta, direttore Risorse Umane di Enel, quando parla del suo libro “Ri-evoluzione. Il potere della leadership gentile”, scritto a quattro mani con la psicoterapeuta Bianca Straniero Sergio (Franco Angeli editore). Una domanda che si è fatto spesso all’inizio della sua carriera e che ha sentito ripetere spesso da qualche suo più giovane collega, quando ha a che fare con il suo “superiore”. Il machismo aziendale dovrebbe essere messo in soffitta, proprio quando ci ispiriamo ai pachidermi. L’immagine della mamma elefante e del suo piccolo è quella che ci è rimasta nella memoria sulla copertina di “Nudge” (la spinta gentile, appunto), pubblicato nel 2008 da Richard Thaler e Cass R. Sunstein. L’economia comportamentale ha rotto l’argine delle abitudini gerarchiche e assertive che a lungo sono sembrate l’unico modo per organizzare il lavoro e per dirigerlo. È la consapevolezza della fallibilità – l’economia comportamentale di Thaler si basa proprio sulla “razionalità limitata” del decisore – che ci deve rendere più gentili. Stratta ci tiene a dire – nel suo libro e nelle conferenze, quasi sempre webinar, in quest’ultimo anno e mezzo, ovviamente – la gentilezza di cui parla e che vuole attribuire alla nuova leadership non ha nulla a che vedere con il Galateo, né con la biologia (nel senso della più o meno naturale propensione individuale alla cordialità e alla cortesia). La leadership gentile è una scelta. Una scelta intelligente, cioè conveniente. Sembra una scoperta della post-pandemia, quando abbiamo dovuto adeguarci ai rapporti distanziati, in qualche modo più rarefatti, dove lo scatto d’ira – la porta sbattuta o la voce che si alza di due ottave – è meno praticabile e anche meno efficace. Nei rapporti “a distanza” prevale una lentezza apparente, che premia la gentilezza; la scelta di non esasperare, anzi, di favorire la comprensione già minata da una comunicazione che ha dovuto fare a meno di molta comunicazione non verbale. Meno istinto e più pensiero. Ci vuole un po’ più di tempo per ascoltare, e il tempo impone scelte più morbide, più cariche di “energia positiva” come dicono gli autori.Nel tempo della riscoperta sostenibilità – ambientale, sociale, organizzativa – anche le relazioni tra persone che lavorano insieme ritornano centrali, proprio se sostenibili. Anche psicologicamente. La relazione fa e farà sempre più la differenza. Senza andare agli estremi di Johan Huizinga – il grande storico del Medioevo sosteneva che l’amicizia costituiva la grande differenza nelle relazioni tra regnanti e governanti – si può ben dire che nel tempo del post-Covid la relazione diventa fondamentale nei rapporti tra collaboratori. Bisogna competere ferocemente con sé stessi, ma collaborare sempre con tutti gli altri. La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità. Abbiamo scoperto il contatto quando abbiamo dovuto re-inventarlo oltre lo schermo di un pc. La gentilezza è il tratto della relazione riscoperta nella sua essenzialità. La relazione – tra persone, tra brand e consumatori, tra brand e stakeholder, tra imprese e comunità territoriali – è sempre più forte. Quindi richiede cura, attenzione, gentilezza, appunto. E bellezza.E’ il destino del design. Il design è rappresentazione dell’essenza, dell’anima un tempo dell’oggetto e ora della relazione. È la rappresentazione in una dimensione di processo e quindi di continuo divenire. In questo quadro, posto in essere dall’avvento digitale, il brand design coniuga dimensioni materiali e immateriali ridefinendo in chiave contemporanea il senso di comunità. È un processo molto più articolato, che investe qualsiasi cosa e recupera l’accezione valoriale quale punto di congiunzione tra chi propone e chi sceglie, secondo logiche improntate a una logica di dialogo. Per questo oggi, il brand svolge un ruolo molto importante. In un periodo di crisi, molte aziende stanno guardando al futuro con la voglia di rimettersi in discussione. Si stanno ridisegnando, stanno dando sempre più importanza ai propri valori, stanno riscoprendo la loro identità. Ed è proprio qui che interviene il brand: dare rappresentazione dell’idea di futuro, dei valori, delle aspirazioni. Il brand disegna le relazioni tra l’azienda e i suoi stakeholder, e tra tutti i collaboratori interni, e, come mamma elefante, dà la spinta gentile per fare dell’azienda un leader… gentile.

Enrico Giaretta. Che cos’è il sound design

“In un mondo saturo di immagini, il suono è uno degli elementi che più richiama l’attenzione. Anche ad occhi chiusi”, esordisce Enrico Giaretta, musicista e compositore (o meglio “cantaviatore”), Sonic Brand Director in Inarea. Dopo svariate esperienze in agenzie oltreoceano, Giaretta porta dentro Inarea un modo diverso di progettare il sound design, focalizzato su un concetto cardine, una “fonte sonora pura” alla base dei molteplici output. “L’obiettivo è dare al brand uno strumento di comunicazione che si inserisca in modo sinfonico nel suo mondo identitario. In generale, realizzare un suono non è complesso, lo è crearne uno capace di integrarsi a tutti i livelli e linguaggi della comunicazione aziendale. Un po’ come il colore rosso di Valentino Garavani che, a prescindere dal capo in cui è utilizzato, viene sempre ricondotto allo stilista”. Come si costruisce l’identità sonora di un brand? “Una volta compresi i contenuti, i valori e i significati associati a un brand e le preesistenze sonore con i relativi fonemi tipici”, continua Giaretta, “andiamo a individuare i touchpoint fisici e digitali in cui il brand può essere percepito. Ad esempio, i suoni sotto gli 80 Hz non sono udibili su tutti i dispositivi mobili, mentre in un ambiente come uno stadio le frequenze possono scendere ben al di sotto degli 80 Hz. Successivamente andiamo a definire il DNA sonoro del brand: quella fonte unica e riconoscibile che consente al marchio di essere immediatamente associato al proprio suono. Per esempio, l’essenza di Banca Ifis è contraddistinta da un ‘glissato’ che rimanda al pay off ‘il valore di crescere insieme’; per Bauli abbiamo scelto la nota La3 (a 440 Hz), ovvero la ‘corista’ del diapason, riferimento per l’accordatura di quasi tutti gli strumenti, che abbiamo associato all’animazione della lettera ‘i’ alla fine del sound logo”. Il marchio sonoro è solitamente inferiore ai due secondi. Più è breve ed essenziale, più è efficace e memorizzabile e, di conseguenza, durevole nel tempo. Verso un futuro sonoro: l’alfabeto musicale di Inarea Se la parola è sempre più intrinsecamente legata al suono e quest’ultimo alla percezione l’essere umano reagisce con più rapidità allo stimolo sonoro rispetto a qualsiasi altro: in 0,146 secondi il cervello recepisce e interpreta un suono –, allora il passo successivo può essere abilitare la comunicazione di un brand alla sola musica. “Con questo obiettivo, in Inarea stiamo sviluppando il concetto di ‘alfabeto sonoro’ che associa una nota a ogni lettera creando un linguaggio universale. È uno strumento pervasivo e coinvolgente che, da una cellula sonora identificativa, può trasformarsi in piccole melodie e perfino in brand theme complessi. Si pensi alla Sinfonia n. 5 di Beethoven che nasce dall’evoluzione di una semplice cellula ritmica di sole quattro note”.

Sonic branding: il potere del suono nell’identità di marca

A chi non è successo di sentire una melodia o un suono e di associarli subito a un marchio? Il concetto di sonic branding ha radici nei jingle delle radio che aiutavano ad associare musica e prodotto in assenza della visione dello stesso. Tuttavia, nel 2023 si è registrato un incremento del 24% degli investimenti nella sonic brand identity da parte di aziende locali e globali. È la risposta alla diffusione delle piattaforme audio, podcast e voice assistant, nonché dei servizi in streaming e dei canali di comunicazione digitali che hanno moltiplicato i touchpoint di contatto tra i marchi e i clienti, rendendo il suono un elemento chiave per rafforzare la riconoscibilità e la memorizzazione. Secondo un’indagine di Spotify (novembre 2023), il 49% dei millennials e della Gen Z dichiara di prestare maggiore attenzione quando ascolta piuttosto che quando guarda qualcosa. Questo dato non sorprende, poiché il suono è l’elemento della brand experience che interagisce più direttamente con le emozioni. L’approccio di Inarea al sound design Inarea combina creatività, tecnologia e acustica, supportata da test neuroscientifici in collaborazione con BrainSigns, spin-off dell’Università Sapienza di Roma. Questi test dimostrano scientificamente come il suono influenzi le emozioni e la percezione del brand. Gli audio concept alla base della realizzazione dei sound logo o di brand theme di Inarea sono dunque qualificati e quantificati a mezzo di sensori di EEG, HR, GSR e Test di associazione implicita (IRT). Il sonic branding non è un elemento accessorio: è una leva strategica per costruire un’identità di marca memorabile e coinvolgente. In un panorama digitale sempre più dominato dai contenuti audio, le aziende che investono in una sonic brand identity riescono a distinguersi, rafforzando il legame emotivo con i loro clienti e lasciando un segno indelebile nel tempo. Case Studies Bauli L’animazione del logo si concentra sul puntino nella ‘i’ del marchio, amplificato dalla nota cosiddetta ‘corista’ che risuona e sovrasta, creando un forte elemento di riconoscibilità. FITP Il brano “Di Campo in campo” rappresenta il primo passo nella creazione di un’identità sonora. Un inno alla capacità di resistere e di andare oltre tipiche degli sport di racchetta. FIGC Il brand theme “Azzurri” è un’articolazione incalzante che si basa su sole due note, enfatizzate dal ricorso ai cori e dalla voce soprano, richiamo alla tradizione operistica italiana. Una Nessuna Centomila Il brand theme è costituito da applausi in un ritmo che si intensifica gradualmente a simboleggiare forza collettiva e solidarietà e un messaggio di unità ed empowerment. Banca Ifis Un kit di elementi sonori (stems) on e offline caratterizza il tema principale del brand e una molteplicità di altri touchpoint digitali e i video istituzionali. Leonardo Nove note nella scala tonale del Fa diventano una sinfonia che si armonizza con richiami sonori al mondo del brand. Pattern musicali sono declinati in differenti touchpoint.