Mario Suglia, General Manager. Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili.

Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili Mario Suglia, General Manager “La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità.” Potremmo dire che tutto è cominciato con un elefante. Probabilmente una mamma elefante. E con la sua spinta “gentile” al piccolo – si fa per dire: appena nato è già un quintale – magari usando la proboscide, per suggerirgli il cammino giusto, le abitudini sociali, uno stimolo a decidere, senza perdere tempo. Soprattutto per evitare che il piccolo elefantino, se mai avesse coscienza, potesse dire: perché mi tratti male? La domanda è quella che si pone Guido Stratta, direttore Risorse Umane di Enel, quando parla del suo libro “Ri-evoluzione. Il potere della leadership gentile”, scritto a quattro mani con la psicoterapeuta Bianca Straniero Sergio (Franco Angeli editore). Una domanda che si è fatto spesso all’inizio della sua carriera e che ha sentito ripetere spesso da qualche suo più giovane collega, quando ha a che fare con il suo “superiore”. Il machismo aziendale dovrebbe essere messo in soffitta, proprio quando ci ispiriamo ai pachidermi. L’immagine della mamma elefante e del suo piccolo è quella che ci è rimasta nella memoria sulla copertina di “Nudge” (la spinta gentile, appunto), pubblicato nel 2008 da Richard Thaler e Cass R. Sunstein. L’economia comportamentale ha rotto l’argine delle abitudini gerarchiche e assertive che a lungo sono sembrate l’unico modo per organizzare il lavoro e per dirigerlo. È la consapevolezza della fallibilità – l’economia comportamentale di Thaler si basa proprio sulla “razionalità limitata” del decisore – che ci deve rendere più gentili. Stratta ci tiene a dire – nel suo libro e nelle conferenze, quasi sempre webinar, in quest’ultimo anno e mezzo, ovviamente – la gentilezza di cui parla e che vuole attribuire alla nuova leadership non ha nulla a che vedere con il Galateo, né con la biologia (nel senso della più o meno naturale propensione individuale alla cordialità e alla cortesia). La leadership gentile è una scelta. Una scelta intelligente, cioè conveniente. Sembra una scoperta della post-pandemia, quando abbiamo dovuto adeguarci ai rapporti distanziati, in qualche modo più rarefatti, dove lo scatto d’ira – la porta sbattuta o la voce che si alza di due ottave – è meno praticabile e anche meno efficace. Nei rapporti “a distanza” prevale una lentezza apparente, che premia la gentilezza; la scelta di non esasperare, anzi, di favorire la comprensione già minata da una comunicazione che ha dovuto fare a meno di molta comunicazione non verbale. Meno istinto e più pensiero. Ci vuole un po’ più di tempo per ascoltare, e il tempo impone scelte più morbide, più cariche di “energia positiva” come dicono gli autori.Nel tempo della riscoperta sostenibilità – ambientale, sociale, organizzativa – anche le relazioni tra persone che lavorano insieme ritornano centrali, proprio se sostenibili. Anche psicologicamente. La relazione fa e farà sempre più la differenza. Senza andare agli estremi di Johan Huizinga – il grande storico del Medioevo sosteneva che l’amicizia costituiva la grande differenza nelle relazioni tra regnanti e governanti – si può ben dire che nel tempo del post-Covid la relazione diventa fondamentale nei rapporti tra collaboratori. Bisogna competere ferocemente con sé stessi, ma collaborare sempre con tutti gli altri. La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità. Abbiamo scoperto il contatto quando abbiamo dovuto re-inventarlo oltre lo schermo di un pc. La gentilezza è il tratto della relazione riscoperta nella sua essenzialità. La relazione – tra persone, tra brand e consumatori, tra brand e stakeholder, tra imprese e comunità territoriali – è sempre più forte. Quindi richiede cura, attenzione, gentilezza, appunto. E bellezza.E’ il destino del design. Il design è rappresentazione dell’essenza, dell’anima un tempo dell’oggetto e ora della relazione. È la rappresentazione in una dimensione di processo e quindi di continuo divenire. In questo quadro, posto in essere dall’avvento digitale, il brand design coniuga dimensioni materiali e immateriali ridefinendo in chiave contemporanea il senso di comunità. È un processo molto più articolato, che investe qualsiasi cosa e recupera l’accezione valoriale quale punto di congiunzione tra chi propone e chi sceglie, secondo logiche improntate a una logica di dialogo. Per questo oggi, il brand svolge un ruolo molto importante. In un periodo di crisi, molte aziende stanno guardando al futuro con la voglia di rimettersi in discussione. Si stanno ridisegnando, stanno dando sempre più importanza ai propri valori, stanno riscoprendo la loro identità. Ed è proprio qui che interviene il brand: dare rappresentazione dell’idea di futuro, dei valori, delle aspirazioni. Il brand disegna le relazioni tra l’azienda e i suoi stakeholder, e tra tutti i collaboratori interni, e, come mamma elefante, dà la spinta gentile per fare dell’azienda un leader… gentile.

Sonic branding: il potere del suono nell’identità di marca

A chi non è successo di sentire una melodia o un suono e di associarli subito a un marchio? Il concetto di sonic branding ha radici nei jingle delle radio che aiutavano ad associare musica e prodotto in assenza della visione dello stesso. Tuttavia, nel 2023 si è registrato un incremento del 24% degli investimenti nella sonic brand identity da parte di aziende locali e globali. È la risposta alla diffusione delle piattaforme audio, podcast e voice assistant, nonché dei servizi in streaming e dei canali di comunicazione digitali che hanno moltiplicato i touchpoint di contatto tra i marchi e i clienti, rendendo il suono un elemento chiave per rafforzare la riconoscibilità e la memorizzazione. Secondo un’indagine di Spotify (novembre 2023), il 49% dei millennials e della Gen Z dichiara di prestare maggiore attenzione quando ascolta piuttosto che quando guarda qualcosa. Questo dato non sorprende, poiché il suono è l’elemento della brand experience che interagisce più direttamente con le emozioni. L’approccio di Inarea al sound design Inarea combina creatività, tecnologia e acustica, supportata da test neuroscientifici in collaborazione con BrainSigns, spin-off dell’Università Sapienza di Roma. Questi test dimostrano scientificamente come il suono influenzi le emozioni e la percezione del brand. Gli audio concept alla base della realizzazione dei sound logo o di brand theme di Inarea sono dunque qualificati e quantificati a mezzo di sensori di EEG, HR, GSR e Test di associazione implicita (IRT). Il sonic branding non è un elemento accessorio: è una leva strategica per costruire un’identità di marca memorabile e coinvolgente. In un panorama digitale sempre più dominato dai contenuti audio, le aziende che investono in una sonic brand identity riescono a distinguersi, rafforzando il legame emotivo con i loro clienti e lasciando un segno indelebile nel tempo. Case Studies Bauli L’animazione del logo si concentra sul puntino nella ‘i’ del marchio, amplificato dalla nota cosiddetta ‘corista’ che risuona e sovrasta, creando un forte elemento di riconoscibilità. FITP Il brano “Di Campo in campo” rappresenta il primo passo nella creazione di un’identità sonora. Un inno alla capacità di resistere e di andare oltre tipiche degli sport di racchetta. FIGC Il brand theme “Azzurri” è un’articolazione incalzante che si basa su sole due note, enfatizzate dal ricorso ai cori e dalla voce soprano, richiamo alla tradizione operistica italiana. Una Nessuna Centomila Il brand theme è costituito da applausi in un ritmo che si intensifica gradualmente a simboleggiare forza collettiva e solidarietà e un messaggio di unità ed empowerment. Banca Ifis Un kit di elementi sonori (stems) on e offline caratterizza il tema principale del brand e una molteplicità di altri touchpoint digitali e i video istituzionali. Leonardo Nove note nella scala tonale del Fa diventano una sinfonia che si armonizza con richiami sonori al mondo del brand. Pattern musicali sono declinati in differenti touchpoint.

Enrico Giaretta. Che cos’è il sound design

“In un mondo saturo di immagini, il suono è uno degli elementi che più richiama l’attenzione. Anche ad occhi chiusi”, esordisce Enrico Giaretta, musicista e compositore (o meglio “cantaviatore”), Sonic Brand Director in Inarea. Dopo svariate esperienze in agenzie oltreoceano, Giaretta porta dentro Inarea un modo diverso di progettare il sound design, focalizzato su un concetto cardine, una “fonte sonora pura” alla base dei molteplici output. “L’obiettivo è dare al brand uno strumento di comunicazione che si inserisca in modo sinfonico nel suo mondo identitario. In generale, realizzare un suono non è complesso, lo è crearne uno capace di integrarsi a tutti i livelli e linguaggi della comunicazione aziendale. Un po’ come il colore rosso di Valentino Garavani che, a prescindere dal capo in cui è utilizzato, viene sempre ricondotto allo stilista”. Come si costruisce l’identità sonora di un brand? “Una volta compresi i contenuti, i valori e i significati associati a un brand e le preesistenze sonore con i relativi fonemi tipici”, continua Giaretta, “andiamo a individuare i touchpoint fisici e digitali in cui il brand può essere percepito. Ad esempio, i suoni sotto gli 80 Hz non sono udibili su tutti i dispositivi mobili, mentre in un ambiente come uno stadio le frequenze possono scendere ben al di sotto degli 80 Hz. Successivamente andiamo a definire il DNA sonoro del brand: quella fonte unica e riconoscibile che consente al marchio di essere immediatamente associato al proprio suono. Per esempio, l’essenza di Banca Ifis è contraddistinta da un ‘glissato’ che rimanda al pay off ‘il valore di crescere insieme’; per Bauli abbiamo scelto la nota La3 (a 440 Hz), ovvero la ‘corista’ del diapason, riferimento per l’accordatura di quasi tutti gli strumenti, che abbiamo associato all’animazione della lettera ‘i’ alla fine del sound logo”. Il marchio sonoro è solitamente inferiore ai due secondi. Più è breve ed essenziale, più è efficace e memorizzabile e, di conseguenza, durevole nel tempo. Verso un futuro sonoro: l’alfabeto musicale di Inarea Se la parola è sempre più intrinsecamente legata al suono e quest’ultimo alla percezione l’essere umano reagisce con più rapidità allo stimolo sonoro rispetto a qualsiasi altro: in 0,146 secondi il cervello recepisce e interpreta un suono –, allora il passo successivo può essere abilitare la comunicazione di un brand alla sola musica. “Con questo obiettivo, in Inarea stiamo sviluppando il concetto di ‘alfabeto sonoro’ che associa una nota a ogni lettera creando un linguaggio universale. È uno strumento pervasivo e coinvolgente che, da una cellula sonora identificativa, può trasformarsi in piccole melodie e perfino in brand theme complessi. Si pensi alla Sinfonia n. 5 di Beethoven che nasce dall’evoluzione di una semplice cellula ritmica di sole quattro note”.

Quando il futuro non tradisce la storia – La nuova identità Treccani

Quando il futuro non tradisce la storia La nuova identità di Treccani Antonio Romano Nei discorsi di tutti i giorni, «lo dice la Treccani» significa che non ci possono essere dubbi rispetto a un’affermazione perché ‘certificata’ dall’istituzione culturale più importante del Paese. Per noi italiani Treccani non è perciò solo la celebre Enciclopedia o il Vocabolario, ma qualcosa di molto più ampio, comunque familiare, tanto da non dover essere spiegato. Si definisce branded, appunto, tutto ciò che non richieda altri argomenti se non il nome (della marca). Deriva da queste semplici considerazioni che il marchio Treccani è riconosciuto, amato, rispettato, ricordato e quindi scelto. È insomma un brand. Ma l’identità, come scopriamo tutti col passare del tempo, non è una dimensione statica, non è data cioè una volta per tutte, è un divenire, e richiede un costante aggiornamento. C’è un obbligo alla contemporaneità che riguarda ognuno di noi e che non vale solo per le persone, ma anche per le organizzazioni (fatte a loro volta di persone). Mancano cinque anni al centenario Treccani. L’Istituto della Enciclopedia Italiana nacque infatti a Roma il 18 febbraio 1925 e nelle intenzioni del fondatore Giovanni Treccani e di Giovanni Gentile, coinvolto nell’iniziativa, la pubblicazione dell’Enciclopedia e del Dizionario Biografico degli Italiani aveva l’obiettivo di dotare l’Italia di una propria identità culturale, sulla scia di quanto era stato già fatto in altri grandi Paesi. Sia pure in ritardo, il nostro nation building trovava la sua espressione più alta, mettendo insieme le migliori intelligenze dell’epoca. Il nuovo marchio nelle due possibili configurazioni La prima edizione dell’Enciclopedia vide la luce nel 1929 e i 35 volumi che la componevano (più uno di indici) furono completati nel 1937. La pubblicazione si rivelò un successo e, da allora, l’opera divenne un ‘monumento da interni’: studi professionali, uffici pubblici destinati all’alta dirigenza e abitazioni della buona borghesia mettevano in mostra i volumi come un vero e proprio status symbol in grado di comunicare in maniera tanto implicita quanto immediata il prestigio culturale e sociale di chi li possedeva. Nel corso del tempo, inoltre, all’Enciclopedia si sono aggiunte altre opere, realizzate sempre grazie all’impegno dei migliori studiosi nelle relative discipline. E una quantità e una qualità straordinarie di contenuti hanno trovato concreta divulgazione sulle pagine dei prestigiosi volumi, firmati Treccani. Dal 2009 buona parte di quei contenuti sperimenta un canale alternativo, quello digitale: il Portale Treccani tocca i 600 mila utenti unici al giorno. Lo schema guida della nuova cornice Treccani e le sue modalità applicative Ma i cambiamenti non si limitano solo a questo. Si dà spazio a nuove aree tematiche per intercettare pubblici altrimenti lontani dal mondo Treccani tradizionalmente inteso. Vengono acquisite altre imprese o rami d’azienda per consentire uno sviluppo efficace alle nuove attività. Treccani Reti, Treccani Scuola, Treccani Arte, Treccani Libri, Bottega Treccani… sono tutte realtà che rispondono ai programmi di sviluppo, posti in essere per garantire futuro a una storia prestigiosa. In questi quasi cento anni, insomma, Treccani è cambiata, sta cambiando e continuerà a cambiare, senza tuttavia tradire mai lo spirito con cui fu fondata. Pensare perciò a una rinnovata rappresentazione identitaria ha significato rileggere questa storia e innestarla sull’idea di futuro che si intende affermare. Per farlo, è stato avviato un processo che ha coinvolto, in una cabina di regia, le risorse impegnate nelle varie società e aree di attività: in questo modo, sono state valutate le esigenze di ogni unità e al tempo stesso trovate le direttrici per una convergenza condivisa. Treccani è ora un marchio unico, in grado di rappresentare ambiti anche molto diversi tra loro: sul piano del design è in diretta derivazione dal precedente, realizzato da noi nel 2005, per garantire continuità identitaria. È stata modificata la T ‘albero’ o ‘fonte’ (così viene chiamata), per assicurare una migliore leggibilità anche a dimensioni minime. Analogamente, il nome Treccani è stato ricomposto, passando dal classico Bodoni a un carattere più recente, ma dalle linee molto sobrie, l’Avenir. È un Sans Serif (in italiano, bastoni), privo cioè di grazie, per consentire a sua volta di essere letto facilmente anche quando è in un corpo tipografico molto piccolo. La ragione di queste scelte progettuali deriva dal fatto che si tende a leggere sempre di più sul ‘vetro’ e meno sulla carta, e i monitor degli smartphone, per quanto brillanti e con definizioni sorprendenti, sono comunque di dimensioni ridotte. A differenza del precedente, il nuovo marchio sarà proposto come firma unica dell’intero sistema: non sarà declinato cioè in associazione con le denominazioni delle varie società o aree di attività. Queste svolgono infatti una funzione di carattere organizzativo, che non interessa al pubblico, la cui priorità è invece nell’essere parte del mondo Treccani, indipendentemente dalla scelta di un particolare prodotto o servizio. Il marchio svolge il suo ruolo segnaletico e simbolico in maniera tanto più efficace quanto più è inserito in un ecosistema omogeneo e coerente e, in questo senso, il progetto ha attinto a piene mani dalla storia dell’Istituto. Tutti i volumi delle grandi opere hanno in comune la presenza sulla copertina e sul dorso di cornici, quasi sempre in rilievo e in oro: questo tratto pressoché costante ha acceso un’associazione di idee, riassumibile nel concetto ‘Treccani, la cornice che racchiude la cultura italiana’. È stato quindi messo a punto uno schema compositivo (un format, come si dice) in grado di ospitare qualsiasi messaggio. Poiché non è più e solo il libro a veicolare i contenuti, anche il concetto di cornice è stato esteso a quello di ‘finestra sulla contemporaneità e sul futuro’: un ritratto molto aderente alla nuova Treccani, chiamata a misurarsi con la complessità propria di questa epoca. Per garantire varietà allo schema compositivo è stata selezionata un’articolata palette, composta da sedici colori più il nero (colore tipografico per eccellenza), che permette una quantità straordinaria di combinazioni, sia di colori diversi, sia di colori e immagini (fotografie e illustrazioni). Un ultimo elemento linguistico caratterizzante è costituito dall’impiego di lettere dell’alfabeto, composte a trama: un omaggio alla tipografia come rimando alla Treccani delle … Leggi tutto

Un’enciclopedia di 100 anni nell’era del digitale

“Un secolo fa”, esordisce Antonio Romano, “Giovanni Treccani e Giovanni Gentile riunirono le migliori intelligenze dell’epoca per dar vita  un ‘nostro’ nation building, espresso attraverso l’unitarietà dell’identità culturale italiana. La prima edizione dell’Enciclopedia Treccani vide la luce nel 1929 e fu completata nel 1937: 35 volumi, più uno di indici, che hanno fatto da fondale a tanti ritratti di personalità importanti. Nasceva un ‘monumento da interni’ che si è arricchito nel tempo e ha arricchito il sapere di molti. Poi, con l’avvento del digitale, questo patrimonio si è dematerializzato ma non ha perso la sua autorevolezza. I lemmi della Treccani sono l’espressione più accreditata e appropriata anche nelle ricerche su Google: una certificazione che pone dei punti fermi rispetto a l’aleatorietà di Wikipedia o all’approssimazione dei social media o, più in generale, della rete.” Che significato ha un’enciclopedia online nell’era del digitale? “Seppure la visione di un Sapere enciclopedico e unitario sia piuttosto anacronistica nell’era di Google, il senso e soprattutto il valore contemporaneo dell’Enciclopedia Treccani è quello di essere un riferimento universalmente riconosciuto. È un merito importante in un’epoca di fake news, in cui non siamo più capaci di leggere i fenomeni attraverso i nessi di causa/effetto. Il processo di digitalizzazione di Treccani è stato avviato nel 1993 da Rita Levi Montalcini, allora presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, con l’obiettivo di farne un  punto di riferimento per le nuove generazioni. Ciò che allora non era prevedibile, e che ne rende la fruizione online ancora più rilevante, è che con il digitale e i social media siamo passati da una cultura del visivo, tipica del secolo scorso, a una della parola scritta. Tutto si consuma attraverso le stringhe di Google che ha cambiato, per usare le parole di Alessandro Baricco, la nostra postura rispetto alla vita”. Come è possibile tradurre il patrimonio dell’enciclopedia in chiave multimediale? “Alla base del rebranding sviluppato nel 2020, c’è la volontà di creare una relazione con un’identità immateriale a cui si attribuisce autorevolezza. Abbiamo dovuto riallineare la brand architecture, che era declinata in un sistema di prodotti editoriali (e non solo), rendendola unitaria e fruibile nella multimedialità del digitale. Abbiamo modificato la T “albero” e cambiato il precedente font in un Sans Serif (in italiano, bastoni, senza grazie) per assicurare una migliore leggibilità anche a dimensioni minime. Abbiamo infine trasposto il tema della cornice, che caratterizza la composizione rigorosa dell’editoria Treccani e che proviene sia dalla cultura razionalista sia dalla tradizione della legatoria, nei motivi a cornice ricorrenti in tutti i nuovi format editoriali dal digitale al cartaceo”. Leggi la descrizione di Antonio Romano dell’identità visiva per Treccani

40 anni di immagini-metafora

Le caratteristiche del nostro Calendario si rintracciano già nei primi lavori degli anni Ottanta: la fotografia (still-life), i mock-up scultura composti con oggetti della quotidianità, lo sfondo bianco e la relazione efficace, a doppia via, con la parola. Ieri come oggi, la logica del progetto è basata sulla sottrazione degli elementi fino all’essenzialità. All’origine, molte scelte furono dettate anche da ragioni tecniche ed economiche: le immagini erano destinate a manifesti pensati per l’affissione stradale, i fondi pieni richiedevano un’accuratezza che le tipografie dell’epoca non avevano e i bordi della figura non dovevano “smarginare” per non doverli rifilare. Ma dal 1991, quando è uscito il primo, abbiamo consolidato un linguaggio riconoscibile e fedele a un principio di qualità. Il fascino dei nostri calendari risiede ancora nell’artigianalità con cui vengono realizzati. E nella struttura compositiva, il mock-up, che riproduce qualcosa di concreto e non una combinazione di elementi già fotografati e rielaborati al computer. A contare non è solo l’impatto delle forme, ma anche la fotogenia della composizione e la sua tridimensionalità: la magia di una bella immagine che fa venire la tentazione di toccare il foglio. Il Calendario è una metafora, anzi tante metafore. La prima è descritta dalle stesse immagini; la seconda, meno evidente, fa riferimento al lavoro delle persone che, con passione e pazienza, si sottopongono ogni anno allo stress e alla sfida; la terza rappresenta la visione e la missione sottese al nostro lavoro. Il nostro fine è dare rappresentazione all’idea di futuro che un’impresa, un’organizzazione, un’istituzione, un prodotto o un servizio intendono porre in essere. Calendarea 2025. Un tuffo nel pensiero Aquarium è il tema del Calendario 2025: un tuffo profondo nel pensiero e nell’esplorazione di ciò che potrebbe rappresentare al meglio un buon auspicio per l’imminente futuro. Un acquario fantasioso e visionario per sentirsi comodi come un pesce nell’acqua, per tutto l’anno! È un racconto attraverso icone gioiose, allegre e ironiche, piene di vita e tranquillità, come si possono trovare nei mari, nei fiumi e nei laghi. Ma al contempo nasconde una sottile metafora nel nome: in un mondo che ci scruta continuamente, se fossimo noi i pesci nell’acquario? Come ogni anno, il linguaggio caratteristico del Calendario svela il segreto di Inarea alla base di tutto: saper leggere ciò che già c’è attraverso il design plurale; partire dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi e ricombinare gli elementi, dando vita a insolite associazioni per alimentare nuove percezioni. SCOPRI I CALENDARI DI INAREA

Monica Solimeno. Riflessioni e backstage del Calendario Inarea

Con un linguaggio poetico e ironico il Calendario Inarea da oltre trent’anni rintraccia i temi della nostra attualità come l’attenzione alla sostenibilità e interpreta attitudini del nostro quotidiano, come la relazione con gli animali domestici o i ferri del mestiere in contrasto con l’inarrestabile smaterializzazione digitale. Eppure, pur nella sua capacità di essere sintesi e leggerezza di pensiero, il Calendario ha un consuntivo di preparazione piuttosto pesante: ciascuno prevede circa settanta schizzi preparatori, una trentina di disegni semi-definitivi con indicazioni dei materiali da usare, oltre venti mock-up da fotografare, altrettanti scatti fotografici con post produzione (scontorno, foto-ritocco, due o tre proposte di impaginazione e prove stampa), il confezionamento e la spedizione. Si inizia a pensare al tema all’inizio dell’anno per l’uscita alla fine dello stesso; è coinvolto un team di “fedelissimi”, una decina di designer, sempre gli stessi, perché è difficile entrare nella complessità di questo progetto. Se nel 1991 il primo Calendario veniva inviato a circa 1500 persone, il numero dei venticinque anni (2016) è stato spedito a sedicimila indirizzi nel mondo. Ironia e sorpresa: gli ingredienti segreti del Calendario Il Calendario persegue un’irrinunciabile qualità a cui partecipano anche il formato (48,5×34 cm), il fondo bianco e la stampa tipografica. “L’elemento sorpresa è il suo elemento principale”, precisa Monica Solimeno, Project director in Inarea che da oltre quindici anni segue questo progetto. “L’effetto inaspettato è dato dal gioco semiotico e dalla decontestualizzazione di materiali del quotidiano nella creazione dei soggetti. Le figure nascono dalla corrispondenza formale con questi materiali o da una composizione di più elementi. Più è essenziale la forma, più è efficace il risultato. Questo codice linguistico nasce dalla sistematizzazione di un modo di comunicare, visibile già negli anni Ottanta, che consiste nell’organizzazione di immagini attraverso l’astrazione di ready made. Il Calendario esprime capacità di sintesi, essenzialità e cura del dettaglio che è il DNA stesso di Inarea e del suo modo interdisciplinare di lavorare (definito design plurale). Ad esempio, pur nella differente resa visiva, la forma essenziale del tulipano nel logo di Sara Assicurazioni rappresenta un simile uso sia della metafora sia dell’astrazione del segno, nonché un analogo superamento del linguaggio comune di quell’ambito”. Come può trasformarsi il progetto del Calendario? Tenendo in considerazione che in oltre trent’anni il Calendario Inarea ha alimentato un’ampia fetta di sostenitori, è possibile rileggere questo progetto con strumenti nuovi senza tradirne l’identità? Se i mock-up sono tutt’ora realizzati a mano, può l’intelligenza artificiale sopperire in questa fase o facilitare quella del layout ideativo? “Qualche anno fa”, continua Solimeno, “si è provato a realizzare oggetti come tazze o tovagliette con alcuni dei soggetti dei calendari, ma quest’ultimi vivono su fondo bianco, su una carta di alta qualità e su stampa tipografica di alto livello. Trasferirli su sopporti di plastica non ha avuto la medesima resa. L’unica declinazione al di fuori del Calendario sono stati i quaderni e le shopping bag, in cui è stato possibile mantenere la qualità proprio perché in carta. Recentemente si è realizzata un’app che mostra tutto il lavoro dei 34 anni. Al momento è una repository di immagini ma ha la potenzialità di creare un’interazione coinvolgente con gli utenti, creando una dimensione reciproca e biunivoca non possibile su carta, così da parlare anche a una generazione più giovane e legata ai device. Più di tre decenni di lavorazione del Calendario hanno prodotto un patrimonio di centinaia di immagini d’archivio tra schizzi, soggetti scartati, work in progress dei mock-up e fotografie analogiche e digitali. Un capitale dal grande potenziale creativo del quale è possibile mantenere l’ironia di fondo per un gioco senza età”. Ancora una volta, è già tutto a disposizione per nuove associazioni e interazioni. SCOPRI I CALENDARI DI INAREA

Spicchio dopo spicchio

Le caratteristiche del nostro Calendario si rintracciano già nei primi lavori degli anni Ottanta: la fotografia (still-life), i mock-up scultura composti con oggetti della quotidianità, lo sfondo bianco e la relazione efficace, a doppia via, con la parola. Ieri come oggi, la logica del progetto è basata sulla sottrazione degli elementi fino all’essenzialità. All’origine, molte scelte furono dettate anche da ragioni tecniche ed economiche: le immagini erano destinate a manifesti pensati per l’affissione stradale, i fondi pieni richiedevano un’accuratezza che le tipografie dell’epoca non avevano e i bordi della figura non dovevano “smarginare” per non doverli rifilare. Ma dal 1991, quando è uscito il primo, abbiamo consolidato un linguaggio riconoscibile e fedele a un principio di qualità. Il fascino dei nostri calendari risiede ancora nell’artigianalità con cui vengono realizzati. E nella struttura compositiva, il mock-up, che riproduce qualcosa di concreto e non una combinazione di elementi già fotografati e rielaborati al computer. A contare non è solo l’impatto delle forme, ma anche la fotogenia della composizione e la sua tridimensionalità: la magia di una bella immagine che fa venire la tentazione di toccare il foglio. Il Calendario è una metafora, anzi tante metafore. La prima è descritta dalle stesse immagini; la seconda, meno evidente, fa riferimento al lavoro delle persone che, con passione e pazienza, si sottopongono ogni anno allo stress e alla sfida; la terza rappresenta la visione e la missione sottese al nostro lavoro. Il nostro fine è dare rappresentazione all’idea di futuro che un’impresa, un’organizzazione, un’istituzione, un prodotto o un servizio intendono porre in essere. Calendarea 2025. Un tuffo nel pensiero​ Aquarium è il tema del Calendario 2025: un tuffo profondo nel pensiero e nell’esplorazione di ciò che potrebbe rappresentare al meglio un buon auspicio per l’imminente futuro. Un acquario fantasioso e visionario per sentirsi comodi come un pesce nell’acqua, per tutto l’anno! È un racconto attraverso icone gioiose, allegre e ironiche, piene di vita e tranquillità, come si possono trovare nei mari, nei fiumi e nei laghi. Ma al contempo nasconde una sottile metafora nel nome: in un mondo che ci scruta continuamente, se fossimo noi i pesci nell’acquario? Come ogni anno, il linguaggio caratteristico del Calendario svela il segreto di Inarea alla base di tutto: saper leggere ciò che già c’è attraverso il design plurale*; partire dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi e ricombinare gli elementi, dando vita a insolite associazioni per alimentare nuove percezioni.

Festa mobile

Tre anni prima della pubblicazione (postuma) del libro di memorie di Hemingway, a Milano prendeva vita il primo Salone Internazionale del Mobile: era il 1961 e nell’Italia di allora nessuno poteva immaginare quali effetti avrebbe prodotto. La storia in realtà comincia nell’immediato dopoguerra, quando degli architetti visionari (e con poche commesse) convinsero degli artigiani brianzoli (divenuti poi industriali) a produrre su loro disegno dei mobili in serie per arredare le case della ricostruzione. Il funzionalismo che animava quei progetti divenne ben presto la cifra stilistica di ciò che ha preso poi il nome di “italian design”. Una formula che evidentemente deve aver funzionato, tanto che, nel 1972, il MoMA di New York consacrò con la celebre mostra “Italy: The New Domestic Landscape” il successo internazionale del nostro modo di dare forma allo spazio della casa, e non solo. Tutto è cambiato da allora, ma ancora oggi per gli italiani la professione del designer è quella di progettare mobili… sarà senz’altro una questione di cronologia oppure è solo una sineddoche, la parte per il tutto, ma tant’è! Perché il design è diventato il sostantivo più aggettivato in circolazione (naturalmente in inglese): industrial, fashion, car, graphic, product, service, food, sound ecc. ecc. E il design italiano è ora il primo in Europa per valore aggiunto e per posti di lavoro. Un traguardo importante, che fa da cornice all’inaugurazione oggi del Salone n. 62. Un evento che impegna ben 210.000 mq della Fiera di Rho e, al tempo stesso, trasforma tutta Milano in un mega spazio evento con la “Design Week”, cominciata già ieri. Questa è la Festa Mobile di un intero Paese, che può celebrare idealmente il suo riscatto rispetto alle condizioni in cui versava quando questa storia è cominciata: dalla ‘pasta e lenticchie’ al primato europeo! E, a proposito dei tempi che cambiano, non è più vero che “la donna è mobile”, ma il Mobile è Donna: dal 2020, Presidente del Salone del Mobile è Maria Porro: ha respirato il legno sin dalla nascita, nella quasi centenaria azienda di famiglia, e poi ha firmato scenografie per il teatro e grandi eventi. Oggi, dopo la lunga parentesi della pandemia, va in scena la sua prima-vera Festa Mobile. Complimenti e in bocca al lupo!

Chiedi alla polvere

A volte basta fare un po’ mente locale sul valore delle parole. Per la lingua inglese l’aspirapolvere è un vacuum cleaner, una questione aperta col vuoto. E, a proposito di vuoto, è un po’ lo stato d’animo di chiunque stia provando a chiedersi cosa ne sarà dell’intelligenza artificiale. Chissà se riusciremo a trasformare questo soufflé in un qualcosa di commestibile, o si sgonfierà nel forno… Un timone per orientarci, viene da una mente italiana di base a Oxford; si tratta di Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica dell’informazione. Floridi distingue la sintassi dalla semantica, la capacità di far significare. Semplificando, ogni nuova idea è una macedonia tra giusti ingredienti, un po’ di non-calcolato, spesso caso: processo che accomuna la mela di Newton al panettone e rimarrà, probabilmente ancora per molto, un dominio tutto umano. L’AI è già più addomesticata se la pensiamo come un vacuum cleaner di dati, che risucchia tempo prezioso al bisogno. In questo senso, la primavera è già inoltrata e la Pasqua è appena passata. A che punto siete con le pulizie? Alzi la mano chi non sta già chiedendo a un robot.