ImaginareaDaily
A novembre 2020 Inarea compiva quarant’anni e, a gennaio 2021, il Calendarea toccava il suo trentesimo anniversario.
Per festeggiare idealmente questi due compleanni con lo zero, è stato pensato di dedicare ad amici e lettori un’immagine al giorno per tutto il 2021.
È nata così Imaginarea Daily: un modo per augurare buona giornata con ironia e leggerezza.
Raccontare l’università: coerenza e identità in un mondo connesso
Un’università non è solo l’ente che insegna. È un mondo che si racconta, che coinvolge chi la sceglie e che proietta il futuro che promette. E in un mondo sempre più connesso, emotivo e competitivo: è proprio il racconto che fa la differenza.
Oggi un’università comunica su molti canali, per questo è indispensabile la coerenza sia online che offline. Siti, social, spazi fisici, eventi e materiali devono parlare la stessa lingua. L’esperienza digitale, in particolare, deve essere chiara e accessibile: è spesso il primo vero contatto con l’ateneo e può influenzare la percezione complessiva della sua identità e affidabilità.
La brand identity di un ateneo è ciò che lo rende riconoscibile subito, ma anche nei messaggi che trasmette. Non è solo un logo e ancor meno un crest: è un mix. Dal naming ai colori, dal sito agli open day, ogni dettaglio di segni, tono e stile racconta chi sei e perché qualcuno dovrebbe sceglierti.
Case Studies
Conservatorio di Milano
Un logotipo dinamico unisce tipografie diverse per rappresentare la pluralità musicale. Il movimento grafico crea un segno visivo in continua trasformazione, mentre l’indicazione spaziale resta stabile, a radicare storia e identità.
Sapienza
Un progetto di brand identity e brand architecture che ha razionalizzato la complessità di un grande ateneo, semplificando la denominazione, ridisegnando simboli storici e introducendo una tipografia proprietaria.
Opit
Un progetto che comunica innovazione, flessibilità e impatto sociale in ambito formativo digitale. Un’identità visiva costruita su simboli binari, tipografia moderna e una palette dinamica per distinguersi nel panorama dell’educazione online.
Case Studies
LIUC
Una brand idenity che unisce cultura accademica e mondo dell’impresa, con un linguaggio sobrio e diretto. Il simbolo della costellazione richiama l’idea di futuro, mentre il blu comunica stabilità e affidabilità.
LUISS
Un progetto che racconta un’idea di formazione come crescita continua, simboleggiata dalla colonna che diventa capitello. Un linguaggio visivo e tipografico coerente rafforza senso di appartenenza e apertura al sapere.
Intercultura
Il brand design rafforza l’autonomia valorizzando il nome quale elemento centrale del logo. Il riferimento ad AFS resta sullo sfondo, segnando le origini ma sottolineando una visione evoluta e indipendente.
Branding e università: quando l’identità fa la differenza
Anche nel settore educational, il branding è diventato un fattore strategico. In un panorama sempre più competitivo e globalizzato, costruire una brand identity solida e riconoscibile aiuta gli atenei a distinguersi, ad attrarre studenti e a posizionarsi in modo coerente nel sistema educativo e nel mercato del lavoro.
Che cos’è la brand identity nel settore educational?
È branded tutto ciò che non ha bisogno di essere spiegato. Aver studiato ad Harvard ad esempio, significa presentarsi con un background notevole poiché la fama dell’ateneo diventa una vera e propria garanzia per chi si è laureato lì, ovvero “brand is reputation”. L’urgenza di costruire un brand nel mondo accademico nasce da un momento di cambiamento sia del modo con cui si insegna, si veda il proliferare dell’offerta formativa online, sia del modo con cui si studia. La riduzione delle nascite porta a compensare il numero degli iscritti cercando di attrarre studenti stranieri. E dunque, per l’inevitabile concorrenza tra università, diventa urgente rappresentarsi al meglio. Costruire una brand identity solida e riconoscibile aiuta gli Atenei a distinguersi e a posizionarsi in modo coerente sia nel sistema educativo sia nel mercato del lavoro.
Partiamo dall’esperienza con Sapienza Università di Roma. Quali furono le principali sfide?
Il progetto di Sapienza Università di Roma, iniziato nel 2006, è stato tra i più complessi per dimensione e stratificazione storica. Parliamo di un ateneo con oltre 150.000 iscritti e una storia di sette secoli. L’obiettivo era costruire un’identità forte, capace di tenere insieme tante realtà diverse, quali scuole e dipartimenti, spesso scollegate tra loro. La riforma che andava a sostituire il sistema tradizionale incentrato sulle facoltà fu il contesto d’intervento. Abbiamo sviluppato un’architettura di brand rigorosa: Sapienza (senza “la”) come master brand, mentre dipartimenti e scuole sono stati identificati solo tipograficamente (con caratteri disegnati ad hoc), eliminando i relativi riferimenti simbolici. Una scelta che ha incontrato molte critiche all’inizio. Il colore porpora, invece del consueto blu “accademico”, è stato scelto per evocare i colori di Roma e sottolinearne il legame. Mentre il claim “Il futuro è passato qui” sintetizza il valore storico e l’eredità culturale dell’ateneo.
Pubbliche o private, c’è una differenza nel modo di costruire il brand?
Il metodo è lo stesso: analisi, strategia, visione. A cambiare è il singolo contesto. Le università pubbliche spesso devono razionalizzare un’eredità storica mentre le private, più giovani, puntano sulla legittimazione e l’attrattività. Ma oggi tutte, pubbliche o private, devono affrontare sfide simili. LUISS, ad esempio, ha saputo valorizzare il suo essere luogo di opportunità e di relazioni globali, rafforzando la fiducia di studenti e famiglie. Il rapporto di Inarea con l’Ateneo inizia nel 2017, con le celebrazioni dei suoi 40 anni, e si sviluppa poi in un progetto di rebranding. Un posizionamento chiaro e coerente, che ha beneficiato di un investimento continuo su un network internazionale. In maniera analoga, ma con esiti diversi, LIUC (Università Cattaneo) ha lavorato sul rafforzamento della sua identità come ateneo legato al mondo industriale, connesso al territorio e proiettato nel futuro.
Quanto conta l’esperienza, la user experience digitale nella percezione del brand?
Tanto, perché l’esperienza oggi inizia prima dell’iscrizione: il sito, i materiali informativi, la navigazione digitale, tutto deve essere coerente, chiaro, attrattivo. La user experience è centrale, soprattutto per atenei che offrono un’ampia gamma di corsi. È in questa fase che si costruisce la relazione emotiva con il futuro studente. L’elemento differenziante può essere la storia, come nel caso di Sapienza, o la visione futura, come per OPIT – una realtà digitale che ha puntato su un corpo docente d’eccellenza come brand ambassador per attrarre studenti. In ogni caso, il brand deve generare fiducia, essere memorabile, riconoscibile ovunque, dai touchpoint digitali a quelli fisici.
In quale direzione si sta muovendo la brand identity nel mondo educational?
Sta diventando sempre più sistemica. Il brand non è più solo un logo o un colore, ma una forma di governo dell’identità. È ciò che costruisce significato nella mente delle persone. Con l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione, potremo vedere nuovi attori entrare in scena – pensate se Amazon decidesse di fondare un’università: la forza del brand sarebbe già un vantaggio competitivo enorme. Per questo, oggi più che mai, serve una visione ampia e un racconto capace di toccare l’intelligenza emotiva delle persone. Perché un brand forte, nel mondo dell’education, non racconta solo cosa sei: racconta dove puoi portare chi ti sceglie.
Dal Branding alla UX. Il design nel settore finanziario
Design e finanza sono profondamente connessi: ogni progetto contribuisce non solo a creare valore, ma anche a rafforzare la strategia complessiva dell’azienda. Mario Suglia esplora come, con la crescente digitalizzazione, sia possibile trasmettere l’identità di banche e assicurazioni in modo coinvolgente ed efficace, utilizzando strumenti come l’UX design e lo storytelling. Per una relazione con il cliente più empatica ma soprattutto autentica.
Che relazione c’è tra finanza e design? E qual è l’approccio di Inarea ai progetti in ambito finance & banking?
Oggi, la relazione tra finanza e design è diventata sempre più stretta e strategica. Non si tratta più di due ambiti così nettamente separati: ogni progetto di design crea valore economico e, dunque, genera finanza. In passato erano mondi separati: la finanza era concentrata perlopiù sulla gestione del denaro e sugli investimenti, mentre il design era impegnato a dare estetica, funzionalità e linee guida per la comunicazione corporate e di prodotto. Guardando con attenzione il secondo dopoguerra si possono però scorgere punti di contatto. Pensiamo a quanto furono incisivi per le vendite, dagli anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso (nel “boom economico”), il packaging, l’estetica e la pubblicità. Con l’avvento del consumismo si capii che un prodotto ben progettato ed esteticamente più bello e funzionale, si vendeva di più. Le aziende, quindi, erano ben felici di finanziare programmi di design pur di aumentare i profitti.
Oggi, le imprese sono ben consapevoli che il design genera valore. Si pensi alle molte aziende cosiddette “design-driven” quali Apple, Tesla o Dyson ma anche Airbnb. Il design è alla “base” del capitale e determinante in termini di equity. Esistono fondi di venture capital specializzati in investimenti ‘corporate’ che privilegiano il design e la creatività. Mai sarebbe potuto succedere fino agli anni Ottanta del XX secolo.
In questo senso, Inarea si distingue per il suo impegno nel dare forma ai significati propri dell’impresa attraverso un design capace di generare bellezza e valore, unendo logiche finanziarie, strategiche ed estetiche in un unico concetto di design: il design integrato (“integrated design”) che esprime significati e genera valore attraverso forme visive, sonore, olfattive, tattili per spazi e ambienti, digitali e persino comportamentali.
È possibile trovare una metodologia generale nei progetti che Inarea ha seguito nel settore finanziario?
Inarea ha adottato da tempo una metodologia che impone al gruppo di lavoro, in ogni fase del progetto, di rileggere l’“oggetto osservato” (azienda, prodotto, servizio, ecc) attraverso una strategia che lo riconfiguri all’interno del settore di riferimento e che, allo stesso tempo, tenga conto dei vari linguaggi di brand. Per esempio, se siamo chiamati a realizzare un sound logo, non andiamo necessariamente a modificare il marchio e i linguaggi di brand, ma li decodifichiamo per intuirne i significati e su questi progettiamo sonorità che si integrano ‘naturalmente’ nel sistema di identità. Si tratta quindi di un processo fortemente animato da ciò che abbiamo definito Integrated Design. E tale processo viene applicato su ogni realtà tenendo conto delle sue peculiarità.
Le istituzioni finanziarie con cui abbiamo lavorato negli ultimi anni, cito tra queste il Gruppo BCC Iccrea, Banca Ifis, BAPS e Sara Assicurazioni, presentano caratteristiche, storie e relazioni diverse. Per BCC il micro-territorio è il motore del suo agire e l’aspetto determinante nella costruzione del suo brand; lo stesso si può dire per BAPS, Banca Agricola Popolare di Sicilia, per la quale il territorio acquisisce centralità: da qui il positioning statement “Siamo la Sicilia prossima”, perché vuole essere una banca vicina alle imprese e alle persone, aiutandole a dare forma al proprio futuro. Individuare il contenuto più profondo, definire l’idea di futuro e darle forma: questo in ogni nostro intervento, quindi, anche nel mondo finance.
Inarea parte sempre dallo stesso presupposto: comprendere i significati più profondi e distintivi di ciascuna realtà e tradurli in un design coerente ed efficace. Il lavoro viene affidato a team interni con competenze verticali nel settore finanziario, supportati da chi ha competenze più ampie e trasversali, assicurando una rappresentazione mirata e conforme agli obiettivi strategici del brand.
Quali cambiamenti apporterà la continua implementazione digitale all’esperienza in questo settore?
Negli ultimi anni non c’è banca o istituzione finanziaria che non abbia compreso che il design, soprattutto l’UX/UI, il branding, il service design e la customer experience, non è solo una questione di estetica ma un asset strategico e patrimoniale, in grado di aumentare il valore finanziario. La digitalizzazione dei servizi finanziari sta trasformando radicalmente l’esperienza utente nel mondo finance. In un ambiente sempre più connesso e disintermediato, è fondamentale progettare esperienze digitali coinvolgenti, con un focus crescente nell’interazione emotiva (grazie al disegno di interfacce e di percorsi ‘belli’, semplici e funzionali) e allo storytelling. Le banche dovrebbero integrare strumenti narrativi e visivi, come storie autentiche, linguaggi leggeri, ironia ed eleganza, per compensare la riduzione di contatto umano e rafforzare il legame con i clienti. Nonostante gli aspetti normativi e di sicurezza restino imprescindibili, il futuro dell’identity design in ambito banking e finanziario dovrà sempre più essere orientato alla creazione di esperienze emozionali, dove il design non solo comunica ma coinvolge, fidelizza e ispira, andando oltre i numeri e le percentuali per scoprire e rivelare la relazione. Questo non solo in spazi digitali, ma anche negli spazi fisici, da ripensare quali elementi esperienziali, che accendono relazioni autentiche: da sportelli bancari a luoghi empatici, capaci di facilitare il dialogo.
Quindi, anche le banche oggi dovrebbero essere design-driven, ovvero progettare esperienze in grado di attrarre, coinvolgere e fidelizzare l’utente attraverso un’interazione intuitiva e significativa (basata, cioè, su significati veri e profondi). Il focus non è più solo sul servizio ma sull’intero disegno della relazione: cosa vive e prova il cliente ogni volta che interagisce con la banca. Infine, le tecnologie di frontiera, prime tra tutte l’intelligenza artificiale e il quantum computing andranno a ridisegnare il rapporto tra banche, istituzioni finanziarie e clienti. Il design sarà ancora una volta centrale nella rappresentazione di nuovi “ambienti” e nel disegno di un nuovo concetto di relazione. Ma di questo ne potremo parlare in una prossima intervista.
BAPS, la banca che parla la lingua delle sue radici
Nella comunicazione bancaria emerge una chiara tendenza verso la semplificazione e l’affermazione di un tono autorevole e relazionale. Gli istituti di credito cercano di consolidare la fiducia attraverso un tone of voice sobrio e diretto, affiancato da una dimensione visiva essenziale. L’obiettivo è duplice: trasmettere solidità istituzionale e rafforzare l’identità del brand in un mercato sempre più digitale. “In quest’ottica”, racconta Emanuela Camera Roda, project director di Inarea, che ha guidato il progetto di brand identity per BAPS (la Banca Agricola Popolare di Sicilia), “si assiste a una progressiva convergenza della comunicazione verso il master brand anzichè la proposizione dei singoli prodotti. Quest’approccio favorisce coerenza, chiarezza e riconoscibilità lungo tutti i touchpoint – fisici e digitali”. Ma veniamo all’esperienza di BAPS, un progetto di brand identity nato da un’esigenza profonda: ridefinire l’identità di una banca storica senza tradire le sue radici territoriali.
BAPS è infatti l’unico importante istituto di credito presente in tutta la regione a essere autenticamente siciliano. È una banca cooperativa per azioni e i suoi soci (spesso dipendenti) vivono e operano nell’isola.
Il nuovo racconto ha voluto partire da questa unicità, recuperando i riferimenti storici dei movimenti cooperativistici che, tra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, diedero vita a forme organizzate in grado di restituire dignità a quelle fasce di popolazione disagiate, che non potevano avere accesso al credito. I simboli di quei movimenti erano spesso riferiti al mondo agricolo: la spiga di grano, la rosa, il mietitore, l’ape ecc.. In questo quadro, proprio per rimarcare il ‘carattere’ siciliano, è stata adottata come marchio la stilizzazione di una pala di fico d’India: una pianta presente in tutto il Mediterraneo ma fortemente radicata nel paesaggio dell’isola. Una scelta che vuole evocare in maniera semplice, iconica e ironica, la capacità di resistere a condizioni ambientali estreme, crescendo e moltiplicandosi. Al tempo stesso, è un segno capace di dare rappresentazione al legame fortissimo che unisce BAPS al suo territorio, superando l’iconografia ‘consueta’ del mondo bancario, in genere conservatrice.
Il colore verde, nuovo protagonista del marchio, richiama direttamente il valore della parola ‘agricola’ presente nella denominazione della banca e si fa portavoce implicito di sostenibilità. Al contempo, il blu storico di BAPR viene mantenuto nella tipografia per preservare il tono istituzionale e la continuità con il passato. Il risultato è un’identità cromatica che bilancia natura e autorevolezza, passato e futuro.
Un sistema coerente dal fisico al digitale
Il progetto ha previsto una riorganizzazione sistemica dei brand di prodotto, eliminando marchi e simboli superflui e riportando tutto sotto l’ombrello visivo del master brand BAPS. Questa “brand concentration” ha coinvolto ogni aspetto della comunicazione: dalle insegne fisiche – adattate con sensibilità ai contesti specifici e locali – alle piattaforme digitali. La coerenza formale su tutti i canali è diventata fondamentale per rafforzare il senso di appartenenza all’universo BAPS, rendendo ogni touchpoint un elemento riconoscibile e rassicurante.
Presenza territoriale e di prossimità
Pur nell’era del digitale, BAPS ha scelto di non ridurre la propria presenza fisica. Al contrario, ha acquisito nuove filiali nel territorio siciliano, confermando che, soprattutto per una banca cooperativa e locale, il contatto umano resta centrale. Le filiali rappresentano presidi di fiducia, soprattutto nei piccoli centri, contribuendo a mantenere saldo il legame con le comunità. Il risultato è una nuova identità forte, coesa, contemporanea, ma profondamente radicata nella storia e nei valori della banca.
Quel legame tra Venezia e Biennale
“Tra la Biennale di Venezia e la città esiste un legame simbiotico”, spiega Antonio Romano alla vigilia della 19a Mostra internazionale di architettura dal titolo “Stranieri Ovunque”. Nel 2001 Inarea realizza la brand identity dell’Istituzione tuttora in utilizzo. Ispirato dalla celebre colonna di Piazza San Marco, il logo ne trasforma il fusto in una campitura rossa, colore fortemente radicato nella cultura e nella storia della Serenissima, che incornicia il nome in bianco, mentre il leone stilizzato interpreta la scultura bronzea alata, originariamente una chimera a cui furono aggiunte poi le ali. Il marchio è caratterizzato da un forte sviluppo verticale, riequilibrato da un quadrato rosso posto a fianco della colonna che inquadra, mettendo in risalto il contenuto, ovvero il sistema di eventi culturali e artistici – Arte, Architettura, Cinema, Danza, Musica, Teatro, Archivio Storico: il perimetro che rende la Biennale un riferimento a livello globale e un forte incentivo a tornare in visita a Venezia durante tutto l’anno.
Come mai questa brand identity è così longeva?
“Perché è semplice. È una sorta di cornice che mette in risalto il contenuto e l’organizzazione culturale dell’istituzione. Diventa un organismo di segni, un design coerente e riconoscibile che si estende a tutti i diversi eventi e manifestazioni. È una sorta di cappello che accomuna e che viene esteso non solo al programma culturale, alla mostra istituzionale o agli spazi espositivi delle varie nazioni partecipanti, ma anche al relativo sistema segnaletico e comunicazione pubblicitaria nella città. Onore all’Istituzione per l’aver saputo utilizzare questo sistema in modo efficace e non invasivo nel tessuto urbano. Se la brand identity ha contribuito a rendere la Biennale riconoscibile, l’Istituzione ha reso Venezia più attrattiva garantendo qualità, articolando l’esperienza dei visitatori e offrendo una nuova relazione con la città stessa che diventa una destinazione non solo per il turismo, ma anche per gli eventi culturali. Tra la Biennale e la città sussiste un legame per cui una è parte dell’altra. E la Biennale diviene un tutto onnicomprensivo: infatti, pur essendoci molteplici biennali nel mondo, il termine richiama alla memoria in maniera immediata quella di Venezia”.
Quali sono i presupposti del marketing territoriale attraverso operazioni di tipo culturale?
“Alla base c’è il riconoscimento di un sistema di valori e di segni impressi nel territorio. Il marketing territoriale nasce da un processo di semplificazione: più il risultato è sintesi di elementi riconducibili, anche implicitamente, a un determinato luogo, più è efficace. Nel corso dei decenni abbiamo realizzato svariati progetti di city branding: da Roma Capitale, in cui il celebre acronimo SPQR e i colori rosso e giallo (trasposizione dell’oro imperiale) si sono talmente radicati nell’immaginario collettivo da diventarne emblema – si veda anche il successivo progetto di brand identity di Sapienza, Università di Roma che sostituisce il rosso al tradizionale blu dell’istituzione, alla città di Milano [leggi anche “Milano, città della ribalta”] in cui il rigore della croce del simbolo araldico diventa elemento organizzativo in grado di coordinare la comunicazione.
“Sono da segnalare anche i casi di New Administrative Cairo Capital – City of Arts and Culture e di Pompeii. Pur essendo quest’ultima una città non più esistente, il progetto di brand identity e di signage & wayfinding del sito archeologico presenta elementi di similitudine con l’organizzazione e la fruizione delle informazioni di un contesto urbano “vivo”. A fronte di esigenze di sintesi nelle mappature, fruizione internazionale, leggerezza visiva e durabilità degli elementi di segnaletica, il progetto risponde alle medesime logiche di attrattività, esperienza e facilità di utilizzo alla base del marketing territoriale urbano. Analogamente, per la nuova città per le arti e la cultura del Cairo abbiamo realizzato un marchio che lega il richiamo internazionale alle piramidi con le ali dell’aquila di Saladino, simbolo dell’Egitto. Abbiamo poi sviluppato un complesso sistema di wayfinding con percorsi pedonali e veicolari che dal mondo esterno si estende all’interno degli spazi, codificandoli in una segnaletica comune. È una città di nuova fondazione, chiamata a ospitare oltre sei milioni di abitanti, in cui auspicherei un legame simbiotico con l’universo urbano simile al caso della Biennale di Venezia”.
Metropolitana milanese. Segnaletica e wayfinding interpretano un’icona
Il progetto delle linee 1 e 2 della Metropolitana di Milano è una pietra miliare nella storia del design italiano. Un progetto valso ad ATM, Franco Albini, Franca Helg e Bob Noorda il Compasso d’Oro nel 1964 e che introduce concetti di immagine coordinata e standardizzazione. Tra gli elementi di forte riconoscibilità la fascia continua e perimetrale nelle stazioni, con il nome della fermata ripetuto ogni cinque metri per essere letto dal treno in movimento. Per la segnaletica, Noorda ha ridisegnato i caratteri Helvetica creando un font che ha preso il suo nome.
La moltiplicazione nel tempo di stazioni e linee, così come la necessità di adeguamento a normative di sicurezza e nuovi servizi hanno imposto ad ATM un processo generale di refreshing della segnaletica e del wayfinding a partire dalla metà degli anni Duemila. “Inarea ha iniziato dalla progettazione della Stazione Garibaldi. È stato stimolante e gratificante confrontarci con un progetto come la Metropolitana milanese, che abbiamo interpretato in chiave rispettosa e filologica”, precisa Niccolò Desii, design director e partner di Inarea che da vent’anni segue la collaborazione con ATM.
Segnaletica e type design. L’interpretazione di un’icona
“Abbiamo trovato un’intervista a Bob Noorda in cui dichiarava che avrebbe voluto creare anche il carattere minuscolo per la Metropolitana di Milano. Stazioni più recenti con nomi più lunghi così come semplici messaggi da introdurre – quali “ai treni” o “uscita” – necessitavano del carattere minuscolo, di più facile lettura. Abbiamo dunque sviluppato un font (Metro Type) a partire da quello di Noorda per declinare la parte testuale di pannelli, cartelli informativi, regolamenti di stazione ecc., ovvero uno strumento con cui ATM avrebbe potuto esprimersi in modo omogeneo e coerente. Abbiamo poi svolto un complesso aggiornamento del manuale per rendere maggiormente integrate le prime linee della Metropolitana con la M3 che presentava elementi di discontinuità, dall’architettura dei cartelli all’illuminazione nelle fasce segnaletiche. In quel periodo fu nuovamente coinvolto lo studio Noorda che si propose per l’aggiornamento del carattere tipografico. Così ATM si ritrovò con due caratteri: quello di Noorda per la segnaletica delle stazioni e il Metro Type di Inarea per le altre informazioni testuali, che comunque dialogano bene perché nati dall’interpretazione del font del 1964”.
Regole e wayfinding per un progetto che duri nel tempo
“Dopo quella di Garibaldi abbiamo realizzato la segnaletica e il wayfinding di altre dieci stazioni della Metropolitana. Nel tempo, abbiamo seguito l’aggiornamento di segnaletica, livree e mezzi di superficie fino all’ultima, la M4, per la quale abbiamo realizzato la mappa aggiornata della viabilità. Abbiamo creato un insieme di regole e algoritmi semplici per consentire una distribuzione dei segnali nello spazio in maniera coerente, omogenea e funzionale ai flussi interni delle varie stazioni. La distribuzione deve evitare la sovrabbondanza di informazioni in spazi ristretti o di transito e posizionare i cartelli sugli snodi o, nel caso di distanze eccessive, a conferma della direzione. In snodi importanti in cui si incrociano più linee, abbiamo dato delle regole generali. Il vademecum indica le caratteristiche dei cartelli come, ad esempio, la luminescenza o la disposizione ortogonale o laterale al varco. Abbiamo infine ridisegnato i pittogrammi e i cartelli più tecnici dei regolamenti o delle normative, consentendo a chi deve predisporre la segnaletica di categorizzare i soggetti e la loro futura distribuzione negli spazi delle stazioni.