Si narra che quando le “Ninfee” di Monet vennero esposte all’Orangerie di Parigi, la sala fosse frequentata solo da amanti in cerca di un luogo appartato. L’artista morì l’anno prima di vederle installate, risparmiandosi così il probabile rammarico di non vederle capite. Eppure, aveva trascorso non poco tempo con quelle ninfee nella sua casa di Giverny, che se ne stavano lì, in tintarella di luce. Lui la chiamava opiniâtreté, ostinazione: cambiava tela ogni volta che lo faceva il sole.
La sua arte non venne capita nell’immediato perché la retina di un uomo del primo Novecento non era imbevuta di immagini in movimento: perché dunque ricrearlo in pittura, arte da sempre considerata dello spazio, ma sicuramente mai del tempo? In realtà, Monet, il tempo lo ha anticipato; come tutti i grandi del resto. Guardando alle sue ninfee, oggi, se c’è una liquidità che viene in mente non è quella del suo stagno di Giverny. È piuttosto quella di un videomapping su un palazzo, di uno schermo al plasma, di quella pubblicità che entra a macchia d’olio dentro il telefono. Quell’istantaneità che Monet tentava di catturare sulla tela, ora non è più opera di un impasto di pulviscoli e cielo; viene da altre fonti. Se siamo riusciti a ricreare la magia, o semplicemente l’abbiamo interrotta, non ci è ancora dato saperlo.
Quel che importa è che lui, con un semplice camouflage di tinte a olio, ha anticipato una visione. Ricordiamocelo ogni volta che andremo a vedere un Monet, un Caravaggio o un Van Gogh ingigantiti su un grande schermo: un trucco, forse, che gli artisti non ci avrebbero richiesto.
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San Serapio