Mario Suglia, General Manager. Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili.

Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili Mario Suglia, General Manager “La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità.” Potremmo dire che tutto è cominciato con un elefante. Probabilmente una mamma elefante. E con la sua spinta “gentile” al piccolo – si fa per dire: appena nato è già un quintale – magari usando la proboscide, per suggerirgli il cammino giusto, le abitudini sociali, uno stimolo a decidere, senza perdere tempo. Soprattutto per evitare che il piccolo elefantino, se mai avesse coscienza, potesse dire: perché mi tratti male? La domanda è quella che si pone Guido Stratta, direttore Risorse Umane di Enel, quando parla del suo libro “Ri-evoluzione. Il potere della leadership gentile”, scritto a quattro mani con la psicoterapeuta Bianca Straniero Sergio (Franco Angeli editore). Una domanda che si è fatto spesso all’inizio della sua carriera e che ha sentito ripetere spesso da qualche suo più giovane collega, quando ha a che fare con il suo “superiore”. Il machismo aziendale dovrebbe essere messo in soffitta, proprio quando ci ispiriamo ai pachidermi. L’immagine della mamma elefante e del suo piccolo è quella che ci è rimasta nella memoria sulla copertina di “Nudge” (la spinta gentile, appunto), pubblicato nel 2008 da Richard Thaler e Cass R. Sunstein. L’economia comportamentale ha rotto l’argine delle abitudini gerarchiche e assertive che a lungo sono sembrate l’unico modo per organizzare il lavoro e per dirigerlo. È la consapevolezza della fallibilità – l’economia comportamentale di Thaler si basa proprio sulla “razionalità limitata” del decisore – che ci deve rendere più gentili. Stratta ci tiene a dire – nel suo libro e nelle conferenze, quasi sempre webinar, in quest’ultimo anno e mezzo, ovviamente – la gentilezza di cui parla e che vuole attribuire alla nuova leadership non ha nulla a che vedere con il Galateo, né con la biologia (nel senso della più o meno naturale propensione individuale alla cordialità e alla cortesia). La leadership gentile è una scelta. Una scelta intelligente, cioè conveniente. Sembra una scoperta della post-pandemia, quando abbiamo dovuto adeguarci ai rapporti distanziati, in qualche modo più rarefatti, dove lo scatto d’ira – la porta sbattuta o la voce che si alza di due ottave – è meno praticabile e anche meno efficace. Nei rapporti “a distanza” prevale una lentezza apparente, che premia la gentilezza; la scelta di non esasperare, anzi, di favorire la comprensione già minata da una comunicazione che ha dovuto fare a meno di molta comunicazione non verbale. Meno istinto e più pensiero. Ci vuole un po’ più di tempo per ascoltare, e il tempo impone scelte più morbide, più cariche di “energia positiva” come dicono gli autori.Nel tempo della riscoperta sostenibilità – ambientale, sociale, organizzativa – anche le relazioni tra persone che lavorano insieme ritornano centrali, proprio se sostenibili. Anche psicologicamente. La relazione fa e farà sempre più la differenza. Senza andare agli estremi di Johan Huizinga – il grande storico del Medioevo sosteneva che l’amicizia costituiva la grande differenza nelle relazioni tra regnanti e governanti – si può ben dire che nel tempo del post-Covid la relazione diventa fondamentale nei rapporti tra collaboratori. Bisogna competere ferocemente con sé stessi, ma collaborare sempre con tutti gli altri. La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità. Abbiamo scoperto il contatto quando abbiamo dovuto re-inventarlo oltre lo schermo di un pc. La gentilezza è il tratto della relazione riscoperta nella sua essenzialità. La relazione – tra persone, tra brand e consumatori, tra brand e stakeholder, tra imprese e comunità territoriali – è sempre più forte. Quindi richiede cura, attenzione, gentilezza, appunto. E bellezza.E’ il destino del design. Il design è rappresentazione dell’essenza, dell’anima un tempo dell’oggetto e ora della relazione. È la rappresentazione in una dimensione di processo e quindi di continuo divenire. In questo quadro, posto in essere dall’avvento digitale, il brand design coniuga dimensioni materiali e immateriali ridefinendo in chiave contemporanea il senso di comunità. È un processo molto più articolato, che investe qualsiasi cosa e recupera l’accezione valoriale quale punto di congiunzione tra chi propone e chi sceglie, secondo logiche improntate a una logica di dialogo. Per questo oggi, il brand svolge un ruolo molto importante. In un periodo di crisi, molte aziende stanno guardando al futuro con la voglia di rimettersi in discussione. Si stanno ridisegnando, stanno dando sempre più importanza ai propri valori, stanno riscoprendo la loro identità. Ed è proprio qui che interviene il brand: dare rappresentazione dell’idea di futuro, dei valori, delle aspirazioni. Il brand disegna le relazioni tra l’azienda e i suoi stakeholder, e tra tutti i collaboratori interni, e, come mamma elefante, dà la spinta gentile per fare dell’azienda un leader… gentile.

Editoria aziendale e multimediale. Il veicolo della cultura d’impresa

Brochure corporate o finance, cataloghi, bilanci amministrativi o di sostenibilità, factsheet sul digitale o su carta sono i prodotti caratteristici della comunicazione d’azienda. Più precisamente, sono il veicolo su cui cammina la cultura d’impresa, produttrice di conoscenza. Il modo in cui le imprese si mostrano e lo storytelling sotteso alla loro comunicazione sono il presupposto fondamentale dell’editoria aziendale. La narrazione non tiene conto soltanto dei valori propri del brand ma anche delle parole più adatte agli stakeholder a cui si vuole parlare. L’editoria aziendale può esprimersi in forme multimediali: sulla carta o sul digitale, con immagini simboliche o descrittive, in movimento o statiche. Tutto deve essere ricondotto all’idea guida che esprime il dna dell’azienda. La bravura di chi ne progetta la comunicazione sta nel declinare tale idea in format diversi senza tradirla, esprimendo – potenzialmente all’infinito – un modo d’essere. Il progetto di editoria aziendale nell’era dell’AI Come cambia l’editoria aziendale con gli automatismi dell’intelligenza artificiale? Che senso ha produrre contenuti nell’era di Chat GPT? E ancora, che valore ha la produzione di editoria cartacea ai tempi della smaterializzazione digitale? Sono domande ricorrenti per chi si occupa di brand identity. Citando Antonio Romano: “comprendere il dna dell’azienda è capire lo spazio che essa riesce a determinare, anche senza mostrarne i prodotti”. Se non governati a monte, non esistono automatismi informatici che possano produrre qualità e coerenza nella comunicazione trasversale di tutto il sistema d’impresa. Perché il brand è una promessa e, se è mantenuta, diviene reputazione. Il digitale ha reso l’editoria aziendale più veloce ma anche più approssimativa. C’è bisogno di tornare all’accuratezza del testo e delle modalità in cui esso si propone. Bisogna tornare a contributi più autoriali. Si dice che ogni azienda sia una media company, ovvero l’“editore” dei propri contenuti, ma essere editori significa avere una visione del mondo a cui si dà rappresentazione solo attraverso la qualità degli autori. Inarea e l’editoria aziendale. Un video che raccoglie il back-stage di progetti paradigmatici Case Studies FIT Consulting Sara Assicurazioni LUISS BCC Snam

Sonic branding: il potere del suono nell’identità di marca

A chi non è successo di sentire una melodia o un suono e di associarli subito a un marchio? Il concetto di sonic branding ha radici nei jingle delle radio che aiutavano ad associare musica e prodotto in assenza della visione dello stesso. Tuttavia, nel 2023 si è registrato un incremento del 24% degli investimenti nella sonic brand identity da parte di aziende locali e globali. È la risposta alla diffusione delle piattaforme audio, podcast e voice assistant, nonché dei servizi in streaming e dei canali di comunicazione digitali che hanno moltiplicato i touchpoint di contatto tra i marchi e i clienti, rendendo il suono un elemento chiave per rafforzare la riconoscibilità e la memorizzazione. Secondo un’indagine di Spotify (novembre 2023), il 49% dei millennials e della Gen Z dichiara di prestare maggiore attenzione quando ascolta piuttosto che quando guarda qualcosa. Questo dato non sorprende, poiché il suono è l’elemento della brand experience che interagisce più direttamente con le emozioni. L’approccio di Inarea al sound design Inarea combina creatività, tecnologia e acustica, supportata da test neuroscientifici in collaborazione con BrainSigns, spin-off dell’Università Sapienza di Roma. Questi test dimostrano scientificamente come il suono influenzi le emozioni e la percezione del brand. Gli audio concept alla base della realizzazione dei sound logo o di brand theme di Inarea sono dunque qualificati e quantificati a mezzo di sensori di EEG, HR, GSR e Test di associazione implicita (IRT). Il sonic branding non è un elemento accessorio: è una leva strategica per costruire un’identità di marca memorabile e coinvolgente. In un panorama digitale sempre più dominato dai contenuti audio, le aziende che investono in una sonic brand identity riescono a distinguersi, rafforzando il legame emotivo con i loro clienti e lasciando un segno indelebile nel tempo. Case Studies Bauli L’animazione del logo si concentra sul puntino nella ‘i’ del marchio, amplificato dalla nota cosiddetta ‘corista’ che risuona e sovrasta, creando un forte elemento di riconoscibilità. FITP Il brano “Di Campo in campo” rappresenta il primo passo nella creazione di un’identità sonora. Un inno alla capacità di resistere e di andare oltre tipiche degli sport di racchetta. FIGC Il brand theme “Azzurri” è un’articolazione incalzante che si basa su sole due note, enfatizzate dal ricorso ai cori e dalla voce soprano, richiamo alla tradizione operistica italiana. Una Nessuna Centomila Il brand theme è costituito da applausi in un ritmo che si intensifica gradualmente a simboleggiare forza collettiva e solidarietà e un messaggio di unità ed empowerment. Banca Ifis Un kit di elementi sonori (stems) on e offline caratterizza il tema principale del brand e una molteplicità di altri touchpoint digitali e i video istituzionali. Leonardo Nove note nella scala tonale del Fa diventano una sinfonia che si armonizza con richiami sonori al mondo del brand. Pattern musicali sono declinati in differenti touchpoint.

Quando il futuro non tradisce la storia – La nuova identità Treccani

Quando il futuro non tradisce la storia La nuova identità di Treccani Antonio Romano Nei discorsi di tutti i giorni, «lo dice la Treccani» significa che non ci possono essere dubbi rispetto a un’affermazione perché ‘certificata’ dall’istituzione culturale più importante del Paese. Per noi italiani Treccani non è perciò solo la celebre Enciclopedia o il Vocabolario, ma qualcosa di molto più ampio, comunque familiare, tanto da non dover essere spiegato. Si definisce branded, appunto, tutto ciò che non richieda altri argomenti se non il nome (della marca). Deriva da queste semplici considerazioni che il marchio Treccani è riconosciuto, amato, rispettato, ricordato e quindi scelto. È insomma un brand. Ma l’identità, come scopriamo tutti col passare del tempo, non è una dimensione statica, non è data cioè una volta per tutte, è un divenire, e richiede un costante aggiornamento. C’è un obbligo alla contemporaneità che riguarda ognuno di noi e che non vale solo per le persone, ma anche per le organizzazioni (fatte a loro volta di persone). Mancano cinque anni al centenario Treccani. L’Istituto della Enciclopedia Italiana nacque infatti a Roma il 18 febbraio 1925 e nelle intenzioni del fondatore Giovanni Treccani e di Giovanni Gentile, coinvolto nell’iniziativa, la pubblicazione dell’Enciclopedia e del Dizionario Biografico degli Italiani aveva l’obiettivo di dotare l’Italia di una propria identità culturale, sulla scia di quanto era stato già fatto in altri grandi Paesi. Sia pure in ritardo, il nostro nation building trovava la sua espressione più alta, mettendo insieme le migliori intelligenze dell’epoca. Il nuovo marchio nelle due possibili configurazioni La prima edizione dell’Enciclopedia vide la luce nel 1929 e i 35 volumi che la componevano (più uno di indici) furono completati nel 1937. La pubblicazione si rivelò un successo e, da allora, l’opera divenne un ‘monumento da interni’: studi professionali, uffici pubblici destinati all’alta dirigenza e abitazioni della buona borghesia mettevano in mostra i volumi come un vero e proprio status symbol in grado di comunicare in maniera tanto implicita quanto immediata il prestigio culturale e sociale di chi li possedeva. Nel corso del tempo, inoltre, all’Enciclopedia si sono aggiunte altre opere, realizzate sempre grazie all’impegno dei migliori studiosi nelle relative discipline. E una quantità e una qualità straordinarie di contenuti hanno trovato concreta divulgazione sulle pagine dei prestigiosi volumi, firmati Treccani. Dal 2009 buona parte di quei contenuti sperimenta un canale alternativo, quello digitale: il Portale Treccani tocca i 600 mila utenti unici al giorno. Lo schema guida della nuova cornice Treccani e le sue modalità applicative Ma i cambiamenti non si limitano solo a questo. Si dà spazio a nuove aree tematiche per intercettare pubblici altrimenti lontani dal mondo Treccani tradizionalmente inteso. Vengono acquisite altre imprese o rami d’azienda per consentire uno sviluppo efficace alle nuove attività. Treccani Reti, Treccani Scuola, Treccani Arte, Treccani Libri, Bottega Treccani… sono tutte realtà che rispondono ai programmi di sviluppo, posti in essere per garantire futuro a una storia prestigiosa. In questi quasi cento anni, insomma, Treccani è cambiata, sta cambiando e continuerà a cambiare, senza tuttavia tradire mai lo spirito con cui fu fondata. Pensare perciò a una rinnovata rappresentazione identitaria ha significato rileggere questa storia e innestarla sull’idea di futuro che si intende affermare. Per farlo, è stato avviato un processo che ha coinvolto, in una cabina di regia, le risorse impegnate nelle varie società e aree di attività: in questo modo, sono state valutate le esigenze di ogni unità e al tempo stesso trovate le direttrici per una convergenza condivisa. Treccani è ora un marchio unico, in grado di rappresentare ambiti anche molto diversi tra loro: sul piano del design è in diretta derivazione dal precedente, realizzato da noi nel 2005, per garantire continuità identitaria. È stata modificata la T ‘albero’ o ‘fonte’ (così viene chiamata), per assicurare una migliore leggibilità anche a dimensioni minime. Analogamente, il nome Treccani è stato ricomposto, passando dal classico Bodoni a un carattere più recente, ma dalle linee molto sobrie, l’Avenir. È un Sans Serif (in italiano, bastoni), privo cioè di grazie, per consentire a sua volta di essere letto facilmente anche quando è in un corpo tipografico molto piccolo. La ragione di queste scelte progettuali deriva dal fatto che si tende a leggere sempre di più sul ‘vetro’ e meno sulla carta, e i monitor degli smartphone, per quanto brillanti e con definizioni sorprendenti, sono comunque di dimensioni ridotte. A differenza del precedente, il nuovo marchio sarà proposto come firma unica dell’intero sistema: non sarà declinato cioè in associazione con le denominazioni delle varie società o aree di attività. Queste svolgono infatti una funzione di carattere organizzativo, che non interessa al pubblico, la cui priorità è invece nell’essere parte del mondo Treccani, indipendentemente dalla scelta di un particolare prodotto o servizio. Il marchio svolge il suo ruolo segnaletico e simbolico in maniera tanto più efficace quanto più è inserito in un ecosistema omogeneo e coerente e, in questo senso, il progetto ha attinto a piene mani dalla storia dell’Istituto. Tutti i volumi delle grandi opere hanno in comune la presenza sulla copertina e sul dorso di cornici, quasi sempre in rilievo e in oro: questo tratto pressoché costante ha acceso un’associazione di idee, riassumibile nel concetto ‘Treccani, la cornice che racchiude la cultura italiana’. È stato quindi messo a punto uno schema compositivo (un format, come si dice) in grado di ospitare qualsiasi messaggio. Poiché non è più e solo il libro a veicolare i contenuti, anche il concetto di cornice è stato esteso a quello di ‘finestra sulla contemporaneità e sul futuro’: un ritratto molto aderente alla nuova Treccani, chiamata a misurarsi con la complessità propria di questa epoca. Per garantire varietà allo schema compositivo è stata selezionata un’articolata palette, composta da sedici colori più il nero (colore tipografico per eccellenza), che permette una quantità straordinaria di combinazioni, sia di colori diversi, sia di colori e immagini (fotografie e illustrazioni). Un ultimo elemento linguistico caratterizzante è costituito dall’impiego di lettere dell’alfabeto, composte a trama: un omaggio alla tipografia come rimando alla Treccani delle … Leggi tutto

40 anni di immagini-metafora

Le caratteristiche del nostro Calendario si rintracciano già nei primi lavori degli anni Ottanta: la fotografia (still-life), i mock-up scultura composti con oggetti della quotidianità, lo sfondo bianco e la relazione efficace, a doppia via, con la parola. Ieri come oggi, la logica del progetto è basata sulla sottrazione degli elementi fino all’essenzialità. All’origine, molte scelte furono dettate anche da ragioni tecniche ed economiche: le immagini erano destinate a manifesti pensati per l’affissione stradale, i fondi pieni richiedevano un’accuratezza che le tipografie dell’epoca non avevano e i bordi della figura non dovevano “smarginare” per non doverli rifilare. Ma dal 1991, quando è uscito il primo, abbiamo consolidato un linguaggio riconoscibile e fedele a un principio di qualità. Il fascino dei nostri calendari risiede ancora nell’artigianalità con cui vengono realizzati. E nella struttura compositiva, il mock-up, che riproduce qualcosa di concreto e non una combinazione di elementi già fotografati e rielaborati al computer. A contare non è solo l’impatto delle forme, ma anche la fotogenia della composizione e la sua tridimensionalità: la magia di una bella immagine che fa venire la tentazione di toccare il foglio. Il Calendario è una metafora, anzi tante metafore. La prima è descritta dalle stesse immagini; la seconda, meno evidente, fa riferimento al lavoro delle persone che, con passione e pazienza, si sottopongono ogni anno allo stress e alla sfida; la terza rappresenta la visione e la missione sottese al nostro lavoro. Il nostro fine è dare rappresentazione all’idea di futuro che un’impresa, un’organizzazione, un’istituzione, un prodotto o un servizio intendono porre in essere. Calendarea 2025. Un tuffo nel pensiero Aquarium è il tema del Calendario 2025: un tuffo profondo nel pensiero e nell’esplorazione di ciò che potrebbe rappresentare al meglio un buon auspicio per l’imminente futuro. Un acquario fantasioso e visionario per sentirsi comodi come un pesce nell’acqua, per tutto l’anno! È un racconto attraverso icone gioiose, allegre e ironiche, piene di vita e tranquillità, come si possono trovare nei mari, nei fiumi e nei laghi. Ma al contempo nasconde una sottile metafora nel nome: in un mondo che ci scruta continuamente, se fossimo noi i pesci nell’acquario? Come ogni anno, il linguaggio caratteristico del Calendario svela il segreto di Inarea alla base di tutto: saper leggere ciò che già c’è attraverso il design plurale; partire dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi e ricombinare gli elementi, dando vita a insolite associazioni per alimentare nuove percezioni. SCOPRI I CALENDARI DI INAREA

Antonio Romano. La città, desiderio di bellezza

La città, desiderio di bellezzaAntonio Romano Calendarea 2005, Inarea Square “chi governa deve aver a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini.” Costituto di Siena, 1309 Scrivere sulla bellezza è un compito sempre difficile. C’è già una estesissima letteratura poiché il tema investe l’orizzonte di senso dell’individuo e della collettività. È innegabile infatti la sua soggettività, ma esistono dei codici condivisi all’interno di contesti sociali omogenei e i criteri che la definiscono sono a loro volta assoggettati alle variabili temporali. Debbo tuttavia esprimere un mio punto di vista e, per farlo, cerco di ricondurre a sintesi la mia esperienza di designer. Il “gettare avanti” contenuto nella parola progetto non è altro che una promessa di futuro, quella che dà senso e direzione alla vita stessa. Come esseri umani, soddisfatti i bisogni primari, ci sentiamo vivi perché desideriamo, ma desiderio significa consapevolezza rispetto a ciò che manca. La bellezza è perciò la nostra parte mancante a cui aspiriamo, in grado di stupirci, sorprenderci e soprattutto completarci. Siamo costretti a misurarci con la realtà, ma le preferiamo la rappresentazione. Così, il continuo desiderio di bellezza ci induce a vestire i nostri pensieri con le parole più appropriate, a far parlare per noi gli abiti che indossiamo, le case che abitiamo e i loro arredi… assegniamo cioè a ogni punto di contatto con gli altri un segno della nostra identità, implicito o esplicito che sia, in grado di rappresentarci nella relazione. Questo insieme è la nostra personale promessa di futuro poiché, proprio sul binomio rappresentazione/relazione, si è costruita la nostra civiltà e la sua espressione più visibile e concreta è la città. L’architettura è d’altro canto l’organizzazione dello spazio ed è questo a generare appunto relazioni. Quando guardiamo, anche con occhi distratti, il costruito di una qualsiasi realtà urbana, cogliamo facilmente il messaggio implicito che gli abitanti hanno voluto trasmettere nelle varie epoche: erano e sono le loro promesse di futuro. Non a caso, “civis” accomuna cittadino e civiltà perché la città è da sempre il luogo delle idee, lo spazio deputato al dibattito. Politica non deriva forse da polis? Lo “spazio pieno di tempo” (Bob Wilson), costituito dalle nostre città, ci permette quindi di leggere il racconto di secoli e spesso di millenni che i nostri antenati ci hanno consegnato e che noi dovremo tramandare. Ma, accanto alla nozione “nobile” di bellezza della città, ce n’è un’altra, apparentemente meno importante, ed è quella con cui siamo più a diretto contatto, camminando a piedi o muovendoci con i mezzi di trasporto. È la città delle strade e dei marciapiedi, della segnaletica orizzontale e verticale, dei negozi e delle loro insegne, dei semafori, delle automobili e dei mezzi pubblici, sia in movimento sia fermi, dei parchi, delle aiuole, degli arredi urbani, dei citofoni e delle cassette delle lettere… Anche questa è una narrazione, per quanto frammentaria ed eterogenea, in grado di farci cogliere in maniera pressoché immediata quel senso di promessa di futuro, insita nel desiderio di bellezza. Rammento la ringhiera di un condominio di periferia, tempestata da una trentina di cassette delle lettere, una diversa dall’altra, disposte senza alcun ordine logico. Un episodio di scarso rilievo, certamente, ma evocativo di una mancanza assoluta di dialogo tra gli sfortunati abitanti di quello stabile: se non c’è comunicazione, non ci può essere relazione e manca quindi il riconoscimento. Fino a quando siamo in grado di fare e di ricevere promesse, siamo al cento della vita; le persone molto anziane, i malati, i diseredati smarriscono il loro desiderio di bellezza perché, in assenza di promesse, sentono di essere invece alla periferia della loro esistenza. Estendendo il concetto alla città, quando il senso di periferia, nella sua accezione più deleteria, si fa spazio anche nelle aree centrali, diventa tangibile la percezione del degrado. In questo senso, quando si afferma che Roma sia una città bellissima, è impossibile essere contraddetti. Si tratta tuttavia di una sineddoche perché il riferimento si limita al centro storico, al costruito immediatamente adiacente alle mura aureliane e ad altri quartieri o “brani” urbani di eccellenza. Gli scempi edilizi, che si sono susseguiti dagli anni ’50 del ‘900 in poi, hanno generato un tale furto di bellezza, prima al paesaggio e quindi alla città, da trasformare la cementificazione in un vero e proprio contagio, che dalla periferia si è propagato verso il centro. Via Sistina, ad esempio, è un asse voluto da Papa Sisto V per collegare idealmente il Pincio e Trinità dei Monti con Santa Croce in Gerusalemme, passando per la basilica di Santa Maria Maggiore. Un gioiello rinascimentale, progettato da Domenico Fontana, vincendo un’orografia che rimanda alle strade di San Francisco: un saliscendi che dà vita a prospettive bellissime, grazie anche alla qualità del costruito e alla presenza di non pochi monumenti. Si affacciavano sulla via grandi alberghi, gallerie d’arte, orafi e negozi di qualità. Fortunatamente, almeno nella parte alta, prossima a Trinità dei Monti, esiste ancora un’unitarietà coerente con la qualità del passato. Ma, scendendo verso Piazza Barberini, la morfologia delle attività commerciali degrada a sua volta in negozi senza porte, che vendono souvenir a un euro, minimarket aperti fino alle ore piccole, dove i minorenni possono comprare alcolici, negozi di abbigliamento che propongono griffe taroccate e ristoranti per turisti, dotati di tutto il corredo kitsch di un’ipotetica cucina italiana: tovaglie a quadretti rossi, fiaschi di vino dal collo lunghissimo e pasta fresca esposta per strada… Il degrado di Roma è tutto nell’aver abituato lo sguardo e piegato i comportamenti a un’estetica del brutto che, attraverso il moltiplicarsi delle situazioni, di fatto legittima la perdita di decoro, non solo urbano. Viene meno di conseguenza anche il ruolo pedagogico della bellezza: un bambino di oggi, per tornare al caso di Via Sistina, non sa cos’era quella strada prima e darà per acquisito lo stato attuale, assumendolo a standard.  È compito di chi amministra la città, perciò, definire una promessa di futuro per la capitale, in grado di rilanciarla in termini di bellezza contemporanea. In caso contrario, il declino può divenire irreversibile. Ci sono … Leggi tutto